In Italia è INPS, solo ed unico grande contenitore di ogni forma previdenziale ed assistenziale pubblica. Ma come funziona ed a chi serve ? Va bene così o si deve cambiare qualcosa ?
Prima di tutto occorre distinguere tra “previdenza” ed “assistenza” : la previdenza pre-vede, cioè immagina un bisogno futuro e predispone, oggi, i mezzi affinché possa essere soddisfatto; l’assistenza invece assiste, cioè soddisfa un bisogno di oggi, con le risorse disponibili oggi. INPS è l’una e l’altra cosa : si occupa di raccogliere risorse oggi, in funzione della soddisfazione dei bisogni di domani ed in funzione della soddisfazioni di bisogni assistenziali di oggi. INPS in linea di massima non capitalizza, cioè incassa contributi oggi e li spende oggi, non domani. Opera in maniera diversa dai sistemi pensionistici privati a capitalizzazione, che raccolgono risorse oggi e restituiscono un patrimonio domani, per intero o rateizzato nel tempo.
I beneficiari della previdenza sono tutti i cittadini italiani aventi diritto, cioè tutti quelli che nel corso della loro vita di lavoro contribuiscono alle entrate dell’INPS, quindi tutti i percettori di reddito, da lavoro dipendente oppure autonomo. Inoltre ne beneficiano in misura ridotta anche quei soggetti che, non avendo contribuito affatto, oppure in maniera irrilevante, nel corso della loro vita, privi di un patrimonio in grado di sostentarli e non più in grado di procurarsi un reddito per raggiunti limiti di età, percepiscono la pensione al minimo: 17,5 milioni di individui nel 2012.
Cominciamo col notare che questo sostegno al reddito non è più previdenza, ma semplice sostegno assistenziale. Infatti il cittadino si è sottratto allo schema contribuzione – pensione corrispondente. La sua erogazione ha scopo umanitario, quindi assistenziale.
Inoltre notiamo anche che, mentre i lavoratori dipendenti ed autonomi del settore privato versano contributi previdenziali ad INPS, attraverso i loro sostituti di imposta, questo non è accaduto in passato per i dipendenti del settore pubblico, allora governati da INPDAI e poi passati ad INPS, in quanto lo Stato era allo stesso tempo datore di lavoro (e sostituto di imposta) oltre che finanziatore di INPDAI, e per evitare una specie di giro conto interno non venivano quindi versati contributi ad INPDAI sulla base dei redditi attribuiti ai dipendenti statali, mentre venivano erogati ad INPDAI i fondi necessari a pagare le pensioni correnti. Questo almeno è quanto sembra, salvo smentite.
Oggi INPS dispone di due canali di finanziamento : i contributi privati ed i trasferimenti statali. Logica vuole che i contributi previdenziali privati siano destinati alla copertura del fabbisogno di erogazione pensionistica agli ex lavoratori del settore privato, mentre i trasferimenti statali dovrebbero coprire il fabbisogno di erogazione pensionistica agli ex lavoratori del settore pubblico ed il fabbisogno di erogazione assistenziale complessiva.
Una osservazione pertinente suggerisce che, come minimo, gli enti destinati ad erogare assistenza e previdenza dovrebbero essere due entità separate, almeno sotto il profilo finanziario, se non aziendale, e con regole rigide, che impediscano flussi di cassa da un settore all’altro. Infatti l’erogazione previdenziale DEVE NECESSARIAMENTE essere coperta interamente dai contributi destinati alla previdenza, e quindi a carico dei soli futuri beneficiari. L’erogazione assistenziale, invece, DEVE NECESSARIAMENTE essere a carico della fiscalità generale, cioè di tutti i cittadini. Quindi l’erogazione delle pensioni al minimo DEVE essere a carico della fiscalità generale.
Nell’ambito della previdenza propriamente detta, debbono essere tenuti distinti, anche sotto il profilo finanziario, le erogazioni ed i contributi provenienti dai lavoratori del settore privato rispetto a quelli del settore pubblico, perché le fonti di finanziamento sono diverse e non necessariamente omogenee. Lo prova il fatto che oggi il reddito pensionistico medio per chi proviene dal settore pubblico è largamente superiore a quello di chi proviene dal settore privato (+70% nel 2012).
La fondamentale distinzione tra previdenza ed assistenza ha anche altre implicazioni. L’assistenza va erogata al bisogno, quindi oggi, e richiede risorse immediatamente disponibili. La previdenza invece potrebbe funzionare secondo due diversi schemi :
a) Sistema a capitalizzazione ; in questo caso i versamenti dei contribuenti dovrebbero venire capitalizzati da INPS, investiti in maniera fruttifera per compensare almeno gli effetti inflazionistici nel corso del periodo di capitalizzazione, quindi restituiti ai beneficiari dopo un periodo minimo di accumulo, o come capitale o come rateo vitalizio. In caso di premorienza del beneficiario il capitale cumulato dovrebbe essere trasferito agli eredi. Il sistema, oggi, non funziona in questo modo. Il metodo contributivo, piuttosto che retributivo o misto, rappresenta soltanto un sistema di calcolo della pensione futura, ma non sottende alcun accumulo reale di capitale.
b) Sistema a distribuzione diretta (o a ripartizione): è quello in vigore, dove i contributi erogati oggi dai pensionati futuri servono alla copertura del fabbisogno dei pensionati presenti, ed a questi vengono erogati. In questo sistema la premorienza non produce diritti trasferibili agli eredi, fatte salve le pensioni di reversibilità al coniuge o a figli minori.
E’ evidente la non correlazione tra contributi di oggi in rapporto ai redditi di oggi ed erogazione ad altri in base ai redditi e contributi di ieri. Il sistema è potenzialmente pericoloso se sprovvisto di regole di adeguamento automatico delle uscite alle entrate effettive. In pratica, se l’economia è in sostanziale crescita costante, i pensionati futuri godranno di un ampio margine positivo tra contributi in entrata e pensioni calcolate in uscita ; viceversa se l’economia è in decrescita : in questo caso le entrate saranno inferiori alle uscite, creando deficit, che dovrà essere compensato dallo Stato, garante di INPS nei confronti dei contribuenti pensionati.
Il problema di questi ultimi anni, ed anche di questi giorni, che ha indotto i governi a posticipare l’ingresso dei lavoratori in pensione, deriva dall’impossibilità di sostenere un maggior numero di erogazioni pensionistiche (17,5 milioni nel 2012) sulla base delle entrate correnti. Per il medesimo motivo sono stati parificati i contributi a carico dei lavoratori autonomi rispetto ai dipendenti (33%) ed è stato congelato l’adeguamento automatico all’inflazione, oggi dichiarato incostituzionale dalla Corte.
I conti di INPS sono tuttavia una commistione di spese previdenziali ed assistenziali che, sebbene contabilmente suddivise, sottendono tuttavia un conflitto di interesse tra le due attribuzioni di spesa, il cui risultato non è trasparente. Significa che l’Ente può decidere di comprimere la spesa previdenziale per poter sostenere quella assistenziale con i trasferimenti statali che riceve, o viceversa potrebbe ridurre la spesa assistenziale per poter sostenere quella previdenziale. Le due partite contabili DEVONO ESSERE SEPARATE , per evitare manipolazioni soggettive.
I DIRITTI PREVIDENZIALI
Non secondario, parlando di spesa previdenziale ed assistenziale, è il tema dei diritti.
La previdenza “obbligatoria” con i versamenti ad INPS ha come unico scopo quello di garantire al privato cittadino un reddito dignitoso quando non sarà più in grado di procurarselo in proprio, evitando di scaricare sulla società nel suo insieme l’onere “assistenziale” di assegnare comunque un reddito minimo ai cittadini imprevidenti.
Ne consegue che, se questo è l’obiettivo, il cittadino dovrebbe essere libero di decidere se aderire al sistema pubblico INPS oppure se scegliere una soluzione previdenziale privata a capitalizzazione. Esistono tuttavia due ordini di problemi :
a) La soluzione previdenziale privata non offre certezze assolute di reddito futuro (l’assicuratore potrebbe fallire privando dei suoi risparmi il contribuente) e nel caso di sinistro il contribuente sarebbe a carico della collettività senza aver contribuito alle entrate INPS destinate a tutti gli altri.
b) Se la soluzione previdenziale privata fosse molto estesa, se venisse cioè scelta da un grande numero di contribuenti, le risorse dell’INPS sarebbero di gran lunga ridotte e quindi la sua capacità di erogazione di pensioni lo sarebbe di conseguenza.
E’ vero che anche la platea degli aventi diritto di INPS sarebbe numericamente più bassa, tuttavia è statisticamente prevedibile che il rapporto dare/avere sarebbe più sfavorevole, anche in rapporto all’incidenza della premorienza.
Fare previsioni attendibili tuttavia non è facile. Sarebbe però possibile una soluzione mista, in cui venga imposta una contribuzione pensionistica INPS minima, idonea a garantire a tutti un trattamento pensionistico minimo, da integrare liberamente con fondi pensione privati, con la massima discrezionalità. Questi cambiamenti, però, se venissero adottati, ridurrebbero le entrate di INPS “adesso” , mentre le uscite resterebbero a lungo costanti, creando un disavanzo insostenibile. Ne consegue che, ove un governo volesse introdurre queste varianti, dovrebbe farlo con una gradualità pluriennale estesa, tale da garantire sempre l’equilibrio del sistema.
La pensione da fondi privati, che già esiste come pensione integrativa, sottoscritta da chi vuole creare un risparmio aggiuntivo a quello forzoso di INPS, non ha vincoli, se non quelli contrattuali che dipendono dalla società assicuratrice del fondo.
Nel caso INPS, invece, le regole sono imposte, e prevedono un numero minimo di anni di contribuzione per maturare diritti superiori al minimo assistenziale, ed un numero minimo di anni di contribuzione oltre che una età anagrafica, prima di poter accedere al trattamento pensionistico. Questi limiti sono stati estesi recentemente, come è ben noto.
Se la pensione INPS fosse a capitalizzazione, ciò che oggi non è, non sarebbe difficile stabilire regole più flessibili per l’accesso alla pensione, anche come età anagrafica, poiché il beneficiario altro non farebbe che raccogliere il capitale cumulato, con un assegno mensile calcolato sulla base del capitale disponibile e della speranza di vita statisticamente determinata in base all’età anagrafica. Non essendo a capitalizzazione, la soglia di ingresso nel “paradiso pensionistico” non dipende più da un riferimento certo (il capitale cumulato) ma dipende da fonti di entrata INPS complessive, incerte e variabili, in quanto legate alla congiuntura economica del momento.
Questo rende più rigido il sistema, perché INPS deve fare stime conservative.
Ciò non toglie che sia comunque possibile immaginare pensionamenti anticipati a fronte di assegni pensionistici ridotti in funzione dei contributi versati ed in funzione della maggiore attesa di vita.
I DIRITTI ASSISTENZIALI
I diritti previdenziali sono “contrattuali”, nel senso che viene stabilito un contratto implicito tra cittadino e Stato, che prevede uno specifico trattamento pensionistico a fronte un un preciso obbligo contributivo. Che poi lo Stato infranga il contratto decidendo senza il consenso dei beneficiari modifiche al trattamento pensionistico promesso, vuoi posticipando l’età pensionabile oppure modificando l’entità del trattamento ed il suo adeguamento inflazionistico, è storia, non opinabile.
I diritti assistenziali, invece, non sono diritti contrattuali, in quanto vengono erogati dallo Stato a chi si trovi in riconosciuto stato di necessità. Non vengono quindi riconosciuti a fronte di un corrispettivo pagato da qualcuno in particolare, ma sono a carico della fiscalità generale, almeno a livello di principio. In Italia, però, l’erogazione viene fatta attraverso INPS, e lo Stato trasferisce dei fondi ad INPS, ma siamo certi che questi fondo coprano interamente il fabbisogno e non sottraggano risorse alla Previdenza ? Pare oggettivo affermare che, sul piano dei principi, le due sfere, previdenziale ed assistenziale vadano separate. Quali necessità assistenziali hanno i cittadini ?
In primo luogo l’assistenza sanitaria, che rappresenta un capitolo a sé, spesato dalla fiscalità generale, oggi, messa in carico alle Regioni, sostenute però da trasferimenti statali, quindi non in autofinanziamento regionale. L’assistenza sanitaria, però, è mirata ad offrire assistenza ospedaliera a fronte delle più diverse patologie, chirurgiche e non, assistenza medica di base e specialistica ambulatoriale, assistenza farmaceutica. Il tutto con contributi a carico degli assistiti, parziali, ma sempre meno insignificanti.
E’ abbastanza ? No. Molti cittadini si trovano in condizioni di disagio “croniche”, cioè stabili, a causa di handicap i più diversi, da quelli fisici a quelli mentali a quelli geriatrici.
Esiste una strategia efficace per fronteggiare questi bisogni ? No. I costi dell’assistenza sono imprevedibili, se non su base statistica, e sono costi pesanti perché legati a situazioni di disagio stabile. Chi paga questa assistenza ? Il confine è incerto. In parte INPS, dietro trasferimenti statali.
L’Italia è un paese di invalidi, veri e falsi, che percepiscono pensioni di invalidità (INPS) ed assegni di accompagnamento (INPS, 500 €/mese). Stiamo parlando di 3,6 milioni di individui (dati 2012). Sono state assegnate pensioni anche per invalidità parziali che non impediscono di svolgere un lavoro, anche se non qualsiasi lavoro.
Qui sorgono immediatamente dei quesiti :
- Esiste ed è ragionevole un diritto a ricevere dalla società (attraverso lo Stato) un compenso per una menomazione o disabilità anche se questa comunque consente di svolgere una attività lavorativa ? In questo caso la pensione di invalidità deve servire a coprire tutte le spese correlate all’invalidità, oppure no ?
- Se il diritto di cui al punto precedente viene riconosciuto come tale, vanno predisposte risorse di tipo assicurativo idonee a sostenere i costi del sinistro, ove si verifichi, oppure no ?
- Se invece la menomazione consente di svolgere comunque una attività lavorativa ed il diritto a ricevere un tale compenso non viene riconosciuto, è tuttavia vero che il cittadino menomato potrebbe incorrere in costi straordinari per compensare la propria menomazione (attrezzature, spese mediche non coperte dal SSN, automezzi speciali, assistenza di persone, ecc, ecc). In che modo lo Stato deve venire incontro al cittadino, almeno sul piano fiscale, se non su quello economico ?
Occupiamoci ora degli invalidi veri, al 100%, cioè di quelle persone che non sono in grado di svolgere alcuna attività lavorativa che produca un reddito capace di sostenere interamente le loro normali spese. Rientrano in questa categoria i paraplegici in genere (che tuttavia possono svolgere alcune forme di lavoro), i malati terminali o affetti da malattie rare gravemente invalidanti, i malati mentali, ed i cittadini molto anziani, con invalidità di tipo geriatrico. E’ comune sentire cittadini che lamentano l’insufficienza dell’assistenza pubblica a favore di questi disabili, con le famiglie dei disabili sovraccaricate da oneri economici e di impegno personale, che spesso incide anche sull’impegno lavorativo.
Questi disabili richiedono assistenza continua, 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno, assistenza che costa uno sproposito se fornita a domicilio da personale esterno, meno ma comunque moltissimo in strutture para-ospedaliere dedicate, di lunga degenza, con costi comunque difficilmente tollerabili dal cittadino medio.
Nel 2012 la spesa assistenziale per l’invalidità civile è stata di 16,66 miliardi di €.
E’ lecito immaginare che solo una quota parte di questa spesa vada a coprire la contribuzione a favore di questa categoria di invalidi totali.
Nel caso degli anziani, l’indennità di accompagnamento di 500 € copre una quota minima dei costi, quando sia indispensabile un badante a tempo pieno, con costi che superano abbondantemente i 2000 €/mese includendo pasti e rimpiazzi festivi.
Nelle strutture assistenziali (RSA) i costi viaggiano da 2000 a 3000 €/mensili.
I quesiti sono :
- Chi deve farsi carico interamente delle spese di gestione di questi disabili ? La famiglia ?
E se non esiste o non è in condizioni economiche di far fronte alle ingenti spese ? - E’ concepibile che in questi casi la comunità nazionale, cioè lo Stato, debba farsi carico interamente delle spese del disabile, integrando quanto eccede il reddito del disabile ed il consumo del suo patrimonio ?
- Ha senso immaginare una previdenza integrativa obbligatoria, di tipo assicurativo, a copertura del rischio di disabilità ?
- La famiglia, comunque intesa, deve essere resa responsabile dell’assistenza economica ad un familiare colpito da disabilità, sollevando lo Stato da qualsiasi responsabilità economica ?
- Oppure questi rischi sono a carico esclusivo dell’interessato che deve cautelarsi per proprio conto contro tali eventualità, con coperture assicurative volontarie, a proprie spese ?
Rispondere a tali quesiti significa immaginare un modello assistenziale organico, che partendo dall’analisi delle situazioni di disabilità di cui si ha esperienza e sulla base della loro ricorrenza statistica, determini una strategia di intervento correlata alle situazioni economiche dei disabili, unitamente a misure di prevenzione economica, quindi di tipo previdenziale.
ASSISTENZA AI NON DISABILI
Rientrano in questa categoria i pensionati al minimo, cioè quei lavoratori che, per i più diversi motivi, non hanno maturato una contribuzione INPS sufficiente, oppure non abbiano contribuito affatto. Le pensioni erogate a questi soggetti sono, di fatto, contributi assistenziali. Lo sono allo stesso modo altri contributi economici a lavoratori non ancora in età pensionabile ma privi di reddito perché espulsi dal mondo del lavoro, oppure anche giovani ma non in grado di accedere ad alcun posto di lavoro. Questa categoria di contribuzione assistenziale è stata sino ad oggi coperta dalla Cassa Integrazione ordinaria, dalla Cassa Integrazione in deroga, dai contributi di disoccupazione, dai contributi di mobilità, ed oggi viene proposto da più parti il cosiddetto “reddito di cittadinanza”.
La Cassa Integrazione ordinaria è finanziata da contributi delle aziende, e quindi esula dal campo delle responsabilità pubbliche. Quella in deroga, e tutto il resto, invece no.
Le opinioni su questo tema hanno implicazioni politiche pesanti. Risentono infatti di una “visione” dei rapporti di lavoro e dei rapporti sociali che è squisitamente ideologica.
In questa sede vogliamo occuparci delle FORME in cui questa assistenza possa esprimersi, senza voler dire cosa sia più auspicabile.
Le pensioni al minimo
Oggi sono pagate da INPS e spesate nel conto generale delle pensioni, impropriamente, trattandosi di spesa assistenziale e non previdenziale. La domanda quindi è : posto che appaia oggettivo che queste pensioni siano pagate dallo Stato (partendo dall’assioma che nessun cittadino possa venire abbandonato a se stesso, anche contro la sua volontà), in che rapporto si pongono con il controllo fiscale esercitato dallo Stato sul cittadino e sui suoi redditi, e con altre forme di assistenza eventualmente erogate al medesimo soggetto ?
In altre parole : se assumiamo che lo Stato sia obbligato ad assicurarsi che ogni cittadino sia in grado di provvedere a se stesso, come può accadere che un cittadino non abbia mai versato contributi o lo abbia fatto in maniera insufficiente ?
In realtà lo Stato non si cura del reddito dei cittadini, se non quando lo accerta per spremerlo con le tasse, mentre ignora i cittadini se non producono reddito. E’ ammissibile ?
Visto che il cittadino, ove non produca reddito, si troverà poi a carico della collettività, almeno per quanto attiene ad una pensione al minimo (trascurando per semplicità le spese sanitarie comunque garantite), ha o no il diritto, lo stato, cioè tutti noi, di pretendere che ciascun cittadino produca un reddito secondo le sue possibilità, a meno che non disponga di un considerevole patrimonio ?
E se questa pretesa è ragionevole, ma il cittadino non è in grado di procurarsi un reddito con le sue sole forze, cosa può e deve fare lo Stato affinché anche quel cittadino non possa sottrarsi al dovere del lavoro ? Ed ancora : è ammissibile che un terzo si proponga come sostituto di reddito del cittadino incapiente, detraendo tale reddito dal proprio imponibile e pagando tasse e contributi proporzionali sul reddito assegnato a quel cittadino (ad esempio moglie e figli a carico, senza reddito proprio) ?
Cassa integrazione in deroga, assegno di disoccupazione, mobilità
Riguardano situazioni di espulsione temporanea o permanente dal mondo del lavoro o da aziende in crisi, con copertura economica temporanea da parte dello Stato.
Lo scopo di questi aiuti assistenziali è quello di fare da ponte tra l’abbandono di un lavoro e quello nuovo, che può tardare anche anni, o non arrivare mai.
Si tratta di una spesa considerevole nei periodi di crisi economica : quali criteri adottare per fornire un sostegno equo e che non venga sfruttato indebitamene come integrazione di lavoro nero ?
- situazione familiare e patrimoniale
- età anagrafica
- titolo di studio e prospettive di impiego correlate
- condizioni ambientali ed opportunità di lavoro in genere
- durata del sostegno e quantificazione economica
- contropartita lavorativa temporanea di pubblica utilità
- altro
Oppure non compete allo Stato doversi occupare di questi cittadini meno fortunati, e sta a loro darsi da fare con mezzi propri per risolvere la loro situazione ? Nel nostro paese si è consolidata nel corso degli anni una spiccata tendenza a pretendere dallo Stato una soluzione a questi problemi, dando per scontata l’incapacità individuale di trovare delle soluzioni, cambiando tipo di lavoro, città o persino paese ; l’emigrazione dovrebbe essere un fenomeno bidirezionale. Il sostegno economico a questi lavoratori pesa sulla finanza pubblica, cioè sulla fiscalità applicata a tutti gli altri, lavoratori ed imprese, e non è d’aiuto a questi ultimi, nei periodi di vacche magre, ai fini di stimolare una ripresa economica i cui benefici ricadono su tutti.
Il reddito di cittadinanza
Questa definizione vuole descrive un sostegno economico fornito dallo Stato a qualsiasi suo cittadino (oppure anche a semplici residenti, senza diritto di cittadinanza ?) che si trovi privo di opportunità di lavoro, a suo dire, a qualsiasi età, una volta ultimata la scuola dell’obbligo. Le proposte, ed in seguito la legge, si basano sulla asserzione del diritto alla vita, e quindi ad un reddito, di qualsiasi cittadino italiano, a prescindere dalle situazioni che lo costringono in quella condizione. Questa condizione, come quella precedente, si prestano a facili e diffuse opportunità di sfruttamento indebito, perché se il reddito conferito è irrisorio si configura come spreco di denaro che non risolve una situazione di disagio economico, mentre se non lo è, induce molti percettori ad accontentarsi, cercando semmai di integrare questa fonte di reddito base con lavoro nero o contributi familiari. Quindi, se il principio può essere largamente condivisibile, la sua applicazione pratica è problematica e si presta alle più diverse proposte applicative.
Una osservazione va fatta : escludendo i soli soggetti privi di relazioni familiari, che sopravvivano in una condizione di assoluta ed intollerabile indigenza, per tutti gli altri, se sopravvivono con un tetto sulla testa e con qualcuno che offre almeno vitto e pochi altri servizi essenziali, non è forse vero che consumano un reddito, anche se non prodotto da loro ma da un familiare ? Allora, non sarebbe forse più facile ed immediato assegnare a questi soggetti una quota del reddito familiare prodotto da altri membri della famiglia, con un trattamento fiscale e contributivo individuale, proporzionalmente ridotto per ciascuno, sulla base del reddito assegnato a ciascuno ?
Nei nuclei familiari monoreddito la facilitazione fiscale potrebbe di per sé rappresentare una forma di sostegno, che ha si un costo, quello della riduzione fiscale, ma introduce elementi di novità nel trattamento fiscale dei nuclei familiari. Un ulteriore sostegno verrebbe eventualmente fornito al nucleo familiare nel suo insieme, solo quando strettamente indispensabile. I quesiti sono :
- Sostegno economico correlato, oppure no, all’accettazione di un lavoro temporaneo compensativo ?
- Sostegno economico anche a chi essendo senza lavoro fa comunque parte integrante di un nucleo familiare (coniuge, figli, parenti stretti conviventi) ? Se si, in che modo ?
- Sostegno economico correlato o meno alla situazione patrimoniale ? Se si in che modo ?
- Sostegno economico come sconto sullo stipendio pagato dall’impresa che assume a tempo indeterminato il disoccupato ?
- Altre forme di sostegno
Quali che siano le soluzioni adottate, non bisogna mai dimenticare che la spesa assistenziale correlata proviene dalla fiscalità generale, che a sua volta proviene da tasse che gravano sui consumi o sui redditi di altri cittadini, oppure di imprese, per cui ogni aggravio di spesa peggiora le condizioni reddituali di lavoratori ed imprese, e le loro capacità di consumo, con un effetto redistributivo del reddito che non è a somma zero.
L’effetto è invece positivo, con incremento del PIL e dei consumi e quindi di produzione e lavoro se questa spesa assistenziale viene coperta da riduzioni di spesa pubblica prive di impatto sui consumi essenziali e relative produzioni, ed è orientata a svuotare la spesa statale non correlata ad impiego prevalente di forza lavoro.
In altre parole, il saldo netto dell’operazione deve sempre essere maggior richiesta di lavoro.
Ing. Franco Puglia
Milano, 14 Maggio 2015