UNA POLITICA ECONOMICA CONGIUNTURALE IN EPOCA COVID

Le conseguenze sanitarie dell’epidemia virale di questo 2020 sono qui fuori discussione. Voglio invece parlare delle conseguenze economiche immediate e prevedibili, e delle misure che il Governo ed il Parlamento dovrebbero mettere in atto per fronteggiare il disastro annunciato. Partiamo dagli elementi del problema:

1. Restrizioni alla mobilità individuale ed alla frequentazione dei luoghi abituali di consumo (bar, ristoranti, alberghi, centri commerciali, cinema, teatri, concerti, discoteche, musei e mostre d’arte, ecc, ecc). L’impatto su queste attività è quello più visibile e misurabile, sia sotto il profilo della riduzione dei consumi finali, e del conseguente gettito fiscale IVA, sia sotto il profilo dei ricavi aziendali di produttori e commercianti, quindi dei relativi profitti, che si trasformano in perdite.

2. Calo dei ricavi nel sistema dei trasporti pubblici ed individuali, a causa delle restrizioni negli spostamenti a media e lunga distanza, su base nazionale o internazionale. Oltre al calo di ricavi e profitti, quando non sono perdite, degli operatori economici finali, va messo in conto il minor consumo di carburanti, nel trasporto merci e privato su gomma, il calo drammatico delle vendite di automezzi, che trascina con se tutta la filIera produttiva, mentre il trasporto su rotaia riduce i suoi ricavi ma senza ridurre i suoi costi, perché i treni viaggiano, anche se a mezzo carico.
Bilanci in rosso anche per il trasporto aereo, massacrato dal crollo dei flussi turistici, sia nazionali che internazionali, con riduzione anche dei viaggiatori d’affari.

3. Calo delle vendite dei produttori di beni d’investimento industriale, sia sul mercato domestico che in esportazione, perché la pandemia determina il crollo verticale delle aspettative di sviluppo e quindi il blocco degli investimenti. Impatto marcato su tutta la filiera produttiva.

4. Calo delle vendite dei generi di consumo non essenziali, non alimentari (unico settore in crescita) a causa dell’incertezza del futuro, crollo dei redditi per molti, o perdita del lavoro, se precario, con prospettive di perderlo nel prossimo futuro, se attualmente in cassa integrazione. Ovvio impatto sulla filiera produttiva.

5. Prospettiva di crollo imminente dell’occupazione, e di tracollo dei redditi, non appena cesserà la cassa integrazione ed i licenziamenti non potranno più essere impediti per legge.

6. Difficoltà di ripresa futura del settore turistico, in persistenza di una condizione epidemica pur ridotta ma non cancellata.

7. Crisi permanente della Sanità nazionale, massacrata dall’epidemia e con il carico arretrato dei pazienti affetti da patologie più “tradizionali” e non epidemiche che trovano oggi dei colli di bottiglia più stretti che in passato. Il tutto aggravato da infrastrutture ospedaliere non sempre all’altezza del loro compito e con una popolazione medica ed infermieristica largamente al di sotto delle necessità di prima del Covid, figuriamoci adesso.

8. Crisi finanziaria delle finanze pubbliche, con un indebitamento fuori controllo, ed un rapporto debito/PIL che verrà considerato non più sostenibile quando la tempesta sarà passata. A fronte di un debito colossale avremo una base produttiva falcidiata ed una base di consumi molto ridotta, con un gettito fiscale drammaticamente ridimensionato.

Elencare gli elementi del problema crea, di per se, scoramento. La visione d’insieme disegna uno scenario senza via d’uscita, con un paese fallito ed allo sbando.
Qui ho voluto delineare soltanto l’aspetto qualitativo dei problemi, senza entrare nel merito di aspetti quantitativi, che sono importanti, ma che richiedono un grande lavoro di raccolta dati, pregressi, sino ad oggi, con difficili previsioni per i prossimi mesi.
Quali che siano i “numeri” che valorizzano questi elementi, appare chiaro che ciascuno di questi va affrontato, e neppure singolarmente, ma con una STRATEGIA D’INSIEME, a carattere strutturale, quindi non soltanto congiunturale. Tentiamo di analizzare gli elementi uno ad uno.

Il punto 1, frequentazione dei luoghi abituali di consumo, è particolarmente critico.
Si tratta di luoghi d’incontro collettivo che per loro natura producono affollamento.
Ora, se potessimo supporre, in base a fondate ragioni, che questo virus prima o poi scompaia, e che non possa venire sostituito da altri egualmente pericolosi, allora potremmo pensare a soluzioni tampone per il settore, cioè quello che il governo attuale sta facendo maldestramente.
Le ragioni profonde che hanno determinato l’insorgenza di questa pandemia, però, non sono venute meno, e non verranno meno. Inoltre questo tipo di virus “parassita” degli organismi animali, una volta insediato negli esseri umani, non ha motivo di allontanarsene, a meno di non riuscire in breve tempo a rendere immune tutta la popolazione mondiale, cosa non realistica. Quindi, se formuliamo l’ipotesi di dover convivere col virus, cosa certamente vera almeno per un lungo periodo da oggi, questi luoghi d’incontro collettivo debbono cambiare radicalmente, altrimenti la nostra vita diventerà una doccia scozzese, tra picchi di contagio e periodi di calma, a meno che il virus non muti per i fatti suoi, diventando privo di pericolosità, cosa sulla quale, al momento, non possiamo ragionare.
Non conterei sui vaccini: è un virus che muta, ed i vaccini ….

Quindi per tutte le attività commerciali che ricadono in questa categoria si impone un radicale cambiamento a livello strutturale, volto ad introdurre un distanziamento fisico sin qui inconcepibile. La tecnologia ci consente di virtualizzare molti spettacoli con un grado di godimento elevato, anche se lo spettacolo “dal vivo” non è riproducibile, tuttavia si può riprodurre con molta verosimiglianza con le tecnologie 3D in ambienti multipli, non concentrati, ciascuno dei quali attrezzato per la purificazione in continuo dell’aria ambiente e con una distanza fisica sufficiente tra le persone che lo frequentano, come già tentato di fare con alcune sale cinematografiche durante i mesi scorsi.

La ristorazione è problematica perché il cibo non può essere virtuale. La motivazione che ci porta al ristorante non è soltanto la degustazione del cibo, ma proprio l’incontro fisico con altre persone.
Le soluzioni qui sanno di fantascienza: la difesa fondamentale è il trattamento dell’aria, men che mediocre nella ristorazione odierna. Il contagio può essere fortemente limitato modificando radicalmente il trattamento dell’aria, con una aspirazione dall’alto, capillare, che convogli verso l’alto l’espirazione delle persone e con questa i virus e batteri che veicola, eliminandoli con radiazione UV intensa.

Mi fermo qui nell’esemplificazione di queste strategie e relativi settori applicativi.
Veniamo alla politica economica: gli aiuti a pioggia, i cosiddetti “ristori” sono un grande spreco di denaro pubblico a debito, che è di scarso aiuto ai beneficiari e non risolve alcun problema. L’approccio deve essere radicalmente diverso: chi fa impresa sa che i mercati nascono e muoiono. Ciò che ha funzionato sino ad oggi può non essere più idoneo ai tempi che cambiano. Si chiama rischio d’impresa. In questo caso il “mercato” è condizionato da restrizioni di carattere sanitario, anzicchè da barriere doganali, o da obsolescenza di un prodotto. Chi fa impresa deve cambiare, e ciò che lo Stato può fare è aiutarlo in tal senso. Come?
Prima di tutto defiscalizzando al 100% l’impresa come tale, riservando l’imposizione fiscale alle sole persone fisiche che ne traggono diretto vantaggio (IRPEF).
In secondo luogo, nelle situazioni in cui, per motivi di ordine sanitario, ma potrebbe anche diventare di ordine pubblico, si comanda la chiusura temporanea di un esercizio, vanno congelati anche TUTTI i suoi costi fissi, nessuno escluso, fiscali e non, inclusi i canoni di locazione da terzi, ed i costi del personale, da porre temporaneamente a carico della collettività. Poi si finanziano a tasso zero, su un arco di 10 anni, i progetti di riconversione che dimostrino di poter soddisfare ai nuovi requisiti di sicurezza.

E va qui ricordato che in prima linea in questa riconversione debbono esserci TUTTI GLI UFFICI PUBBLICI, LE SCUOLE DI OGNI ORDINE E GRADO, E LE STRUTTURE SANITARIE.
Senza dimenticare il trasporto pubblico su rotaia e su gomma, urbano ed interurbano.
Si tratta di investimenti da capogiro, che vanno programmati su un arco di tempo necessariamente esteso. E chi frequenta gli edifici vetusti, che sono più suscettibili di indurre contagi, va controllato assiduamente sotto il profilo sanitario, per isolare la formazione di focolai.

Il punto 2. sistema dei trasporti viene subito dopo. Anche in questo caso, dove si tratta di trasporti pubblici, vanno introdotte misure strutturali di sanificazione in continuo dell’aria degli ambienti e di riduzione del traffico.
Per la sanificazione valgono le medesime regole e tecnologie impiegabili per gli edifici.
La riduzione del traffico, invece, passa attraverso un ripensamento completo delle politiche di trasporto urbano, che hanno sempre privilegiato il trasporto pubblico rispetto a quello privato, rovesciando questo paradigma, e cioè ricorrendo al trasporto pubblico in chiave secondaria e non primaria rispetto a quello privato, in chiave competitiva, sotto il profilo dei tempi di percorrenza tra destinazioni utili e sotto quello economico, ponendo gli oneri del trasporto pubblico urbano interamente a carico della collettività, cioè dei residenti nel Comune, e rendendo gratuito il trasporto stesso, però contingentato. Vanno controllati e conteggiati gli accessi e il carico passeggeri delle diverse linee di trasporto.

Ma non basta: occorre diminuire in volume le necessità individuali di spostamento, sia in ambito urbano che extraurbano. Questo significa rendere strutturale il concetto di lavoro a distanza ovunque sia possibile, con una frequentazione dei “luoghi collettivi di lavoro” più limitata su base settimanale, remotando la funzione “ufficio individuale” all’abitazione del lavoratore ed allestendo nel vecchio luogo di lavoro strutture di incontro e confronto collettivo periodico, su base programmata. Una analoga organizzazione si può attuare anche nella scuola, almeno a partire da una certa età dei ragazzi. Si potrebbe pensare ad una estensione della scuola elementare, come numero di anni, e ad un accorpamento della scuola media con quella superiore.

Lo “smart working” non è sempre possibile : esistono pur sempre le attività produttive, le “fabbriche”, dove la presenza fisica è insostituibile, per quanti si possa pensare anche a linee di produzione robotizzate e controllate a distanza ma, per favore, non da casa !
In questi edifici, però, il distanziamento fisico è più facilmente ottenibile e non dovrebbero rappresentare un problema sotto questo profilo.
Lo spostamento casa-lavoro delle maestranze non è quindi comprimibile, ma le “fabbriche propriamente dette” sono state da tempo espulse dai grandi centri urbani ed il trasporto al di fuori di questi avviene, più spesso, con mezzi individuali.
Occorre invece agire su tutte quelle concentrazioni urbane “palazzi uffici” verso i quali confluiscono ogni giorno tanti lavoratori dalle periferie.
Insomma dobbiamo combattere il fenomeno del pendolarismo.
Trasferire queste strutture in periferia non cambia i termini del problema, anzi, lo può anche aggravare, perché questi edifici sono comunque dei punti di concentrazione umana.
Trattandosi essenzialmente di lavoro d’ufficio, in parte trasformabile in lavoro da remoto, questa migrazione da un lavoro full time in ufficio a par time ufficio e part time a casa contribuisce, intanto a snellire l’affluenza quotidiana.

Ma la rivoluzione che dobbiamo intraprendere ci chiede di più.

Si parla ormai da anni del lavoro precario come di un grande problema epocale irrisolto.
E’ vero. Ma è anche vero che la precarietà è sempre di più strutturale ad una società in rapida evoluzione, sottoposta a spinte di mercato e adesso anche a spinte sanitarie epocali. Banalmente, se tutti sono precari nessuno è precario.
Come le attività imprenditoriali delle P.IVA : nessuna di loro è garantita, eppure lavorano, ma nascono e muoiono, e si riconvertono. E’ lavoro come qualsiasi altro, e non deve esserci più una differenza abissale tra lavoro autonomo e dipendente.

La precarietà strutturale facilita la mobilità nel mondo del lavoro.

L’abolizione del concetto di “lavoro dipendente” implica che ciascuno sia imprenditore di se stesso, ma implica anche la possibilità di consorziare risorse di lavoro analoghe in organizzazioni che possano collocare la risorsa dove serve, ottimizzando anche gli aspetti logistici, in funzione delle posizioni della casa e del luogo di lavoro.
Una funzione innovativa e rivoluzionaria per il SINDACATO, che a questo punto si fa imprenditore consortile, e contratta la cessione a titolo oneroso delle sue risorse umane verso i luoghi di lavoro che lo richiedono, in maniera assolutamente flessibile.
Certo, questo significa rinunciare allo “stipendio fisso”, in funzione di un reddito variabile che dipende dalla capacità d’insieme del consorzio, esattamente come accade nelle imprese. Uno schiaffo all’individualismo, ma forse non ce lo possiamo più permettere in un mondo sovraffollato come il nostro. Se invece sterminiamo alcuni miliardi di esseri umani, naturalmente, potremmo anche tornare ai vecchi tempi …

Queste politiche guardano ad una conversione strutturale del nostro modo di vivere, idoneo ad un mondo sovraffollato, globalizzato, competitivo, ed anche fragile, come il Covid-19 ci ha mostrato. Qui il compito della politica diventa di indirizzo sociale, facilitato con misure di ordine fiscale e normativo, più che non di gestione del denaro pubblico raccolto con una fiscalità che rappresenta sempre un fardello sulle spalle delle attività economiche produttrici di ricchezza. Una concezione politica di stampo liberale che, però, non dimentica l’aspetto collettivo, perché una organizzazione sociale non può funzionare soltanto in base al sacrosanto principio del profitto individuale, o di gruppo, ma deve anche essere in grado di offrire una serie di servizi che, come tali, sono poco indicati alla produzione di profitto, se non indirizzati solo a facoltose minoranze.

Un tipico esempio ce lo da oggi la pandemia di Covid, la quale richiede infrastrutture sanitarie in grado di rispondere ai bisogni pressanti della cittadinanza senza chiedersi se l’assistenza fornita possa produrre profitti oppure no. L’assistenza migliore possibile va fornita, e basta, ed i costi debbono essere a carico della collettività. Analoga cosa per la previdenza sociale, che può essere affiancata da una previdenza privatistica, ma la base deve continuare ad essere quella pubblica, magari minima, senza pensioni d’oro e quindi limitando la contribuzione massima, ma comunque garantita. Il principio dei servizi pubblici collettivi non privatizzabili va conservato, e riguarda Magistratura, forze dell’ordine e forze armate, PARTE della sanità (non tutta; il discorso è ampio) ed i servizi a carattere di monopolio naturale, non privatizzabili e cedibili solo in gestione a privati ma con limite di tempo. In questo caso le spese di investimento debbono restare pubbliche ed ai privati va richiesta soltanto la gestione, per facilitare i passaggi da un gestore ad un altro.

Parlare di trasporti ci ha condotto a considerazioni di ordine generale che investono l’organizzazione sociale nel suo insieme, il mondo del lavoro, della pubblica amministrazione e del welfare. Già questo ci fa comprendere come i diversi temi siano collegati tra loro. Non si possono proporre interventi settoriali: questi debbono fare parte di un disegno complessivo.

Il punto 3 e 4. calo delle vendite, ci descrive un panorama contingente, me non troppo, in cui dovremo fare fronte ad un calo generalizzato della produzione industriale, determinato da minore domanda interna ed esterna.
Conseguenze immediate: disoccupazione crescente, possibile chiusura di alcune attività, cambio di prospettive future. Gli interventi in questo caso competono più alle forze produttive che non alla politica, che tuttavia deve fare la sua parte. Quale?

1. Politica di semplificazione fiscale, partendo dal principio in base al quale le tasse competono ai soggetti privati perché servono a pagare servizi destinati ai privati.
Le imprese, come tali, sono meri “strumenti” nelle mani di persone fisiche, e non vedo perché debbano essere un soggetto fiscalmente imponibile.

La fiscalità dispone di due leve principali: l’imposta sui consumi (IVA) e sul reddito (IRPEF). Ogni altra imposta dovrebbe scomparire.
Agendo sulle due leve si possono spostare i movimenti economici sui consumi (alleggerimento IVA) oppure sul risparmio (alleggerimento IRPEF).
Sono anche dell’opinione che vadano definitivamente abolite le miriadi di “incentivi” che distorcono il mercato perché la politica vuole indirizzare i movimenti economici verso un settore oppure un altro. L’IRPEF va suddivisa in quote tra Stato, Regioni e Comuni, secondo il principio della complementarietà, in base al quale l’imposizione complessiva in capo al soggetto non può cambiare, ma soltanto la distribuzione tra i tre soggetti territoriali.
L’IVA deve essere di esclusiva competenza statale, in quanto gli acquisti non hanno una valenza territoriale.

2. Politica di semplificazione normativa, sburocratizzando drasticamente la vita delle aziende, e trasferendo alla P.A. l’onere della prova per inadempienze delle aziende.
In altri termini: le aziende debbono disporre di un TESTO UNICO di riferimento che regoli i loro rapporti con la P.A. e con gli altri soggetti economici con cui le aziende si relazionano (Giustizia, lavoratori, ambiente, ecc).
La P.A. deve avere l’onere del controllo a campione sulla conformità delle aziende alle regole e se trovata difforme deve avere un tempo ragionevole a disposizione per mettersi in regola senza sanzioni, trascorso il quale possono scattare le sanzioni, ed in questo caso debbono essere MOLTO severe, perché c’è DOLO, non inadempienza per ignoranza.

3. Politica di riequilibrio dei mercati. Ciascun paese è parte di un insieme mondiale che ha le porte chiuse, ma non per tutti, rispetto al movimento delle persone, e porte troppo spesso spalancate rispetto al movimento di capitali e di merci. Il pensiero liberale classico, di riferimento, non immagina vincoli di alcun tipo, ma neppure agli spostamenti delle persone, e qui rischia di toccare il confine del pensiero comunista, che immaginava un mondo senza confini, dominato dalla visione comunista, che è globalista.
Oggi di questa visione resta nella sinistra solo il terzomondismo, che prevede un movimento libero delle persone, ma unidirezionale, dai paesi poveri verso quelli ricchi, che debbono essere accoglienti, mentre quando accade il contrario è solo per il loro sfruttamento, con la sola eccezione dei “benefattori” con connotazione religiosa o comunque ideologica.
Questo modello tradizionale sorvola, però, sul fatto che l’ottimizzazione del sistema produttivo mondiale non implica l’ottimizzazione della ricchezza di parti di esso, che possono anche impoverire o soccombere, perché il modello non è interessato all’aspetto umano, anche egoistico, della produzione economica.
I paesi del mondo non sono tutti uguali, e non lo saranno mai. Le differenze sociali, storicizzate, ma anche di natura attitudinale, etnica, geografica, politica, determinano condizioni di vita e di concorrenza economiche che non partono da una medesima base, da paese a paese. Ed il modello liberale prevede identiche condizioni di partenza per tutti, che però non esistono. Ecco quindi che hanno un senso le BARRIERE tra i paesi del mondo, sia sotto il profilo dello spostamento delle persone (i confini nazionali) che sotto quello delle merci e dei capitali. Non sarà ottimale per l’economia globale, ma chi se ne frega.
Occorre ristabilire il sistema degli accordi di scambio, ciò per cui nacque il WTO, con accordi bilaterali tra i paesi, volti a stabilire condizioni di win-win, in cui entrambi i partners commerciali abbiano vantaggi reciproci, e questo grazie ad accordi che consentano di equilibrare il valore degli scambi, tenendo conto degli interessi locali delle parti, che debbono salvaguardare il lavoro locale, in qualità e volume.
Se così si facesse, la Cina cesserebbe di essere un problema. Certo, la sua crescita si ridurrebbe, e dovrebbe essere fondata di più sulla crescita del mercato interno rispetto a quello estero, cosa che, grazie al Covid, adesso la Cina sta cercando di mettere in atto con i nuovi piani del presidente cinese.
Noi dobbiamo approfittare del momento per ridurre la nostra dipendenza dall’estero, essenzialmente su base europea, stabilendo dei VERI CONFINI europei, su ogni fronte, non dimenticando quello dell’immigrazione, ora a carico solo di alcuni.
Non è facile stabilire accordi bilaterali tra la UE e gli altri paesi del mondo, ma è ESSENZIALE, e tali accordi debbono essere in sintonia con accordi interni che non favoriscano le produzioni di alcuni stati rispetto ad altri, in chiave di esportazione come di importazione extraeuropea.

5. Prospettiva di crollo imminente dell’occupazione. Le misure per fronteggiare questo cataclisma annunciato hanno carattere contingente. La politica economica che propongo è strutturale e di lungo respiro, e non può sortire effetti immediati, soprattutto sotto il profilo occupazionale. Anche la risposta occupazionale deve avere una dimensione strutturale.

Dobbiamo quindi mettere in conto una massa variegata di disoccupati, non omogenea:
a) espulsi dal sistema produttivo industriale, quindi con alcune competenze tecniche
b) espulsi dal mondo del commercio, per attività commerciali chiuse
c) espulsi dal mondo dei servizi, grazie alla semplificazione normativa messa in atto.
d) espulsi per obsolescenza rispetto alle nuove richieste del mercato
e) espulsi dal mondo dei piccoli servizi a causa del calo generalizzato dei redditi

A fronte di questo scenario dobbiamo immaginare uno scenario occupazionale verso il quale cercare di indirizzare le maestranze rimaste prive di occupazione.
Nel contingente resta lo strumento della cassa integrazione a carattere generalizzato, che tuttavia rappresenta un costo spaventoso, a carico della spesa pubblica. Il minimo che si può pretendere dai cassintegrati è che compensino questo reddito accettando lavori anche poco gradevoli, ma socialmente utili, cosa che ad oggi non viene fatta, anche se se ne parla.

Qualche esempio?

1. Rinforzo sostanzioso del personale della nettezza urbana, che lascia SEMPRE a desiderare nelle nostre città, perché le risorse destinate hanno i limiti imposti dalla fiscalità, ma se dobbiamo sborsare soldi per sostenere il reddito di disoccupati, che servano almeno a qualcosa, altrimenti si sostengano da soli.

2. Tutela del territorio. Le foreste italiane offrono uno spettacolo indegno.
Chi dovrebbe occuparsene ha risorse umane ridottissime. Questo lavoro veniva fatto in passato dai contadini, che erano numerosi, e che ripulivano i boschi dal legname secco per riscaldare le case. Possiamo ricominciare, raccogliendo legname e trasformandolo in combustibile, anche se è molto inquinante, sotto forma di pellet o con altre tecnologie. Oppure si può trasformare in truciolo per produrre materiale da costruzione.

3. Controllo del territorio per segnalare situazioni irregolari (abbandono rifiuti, bivacchi, assembramenti pericolosi, ecc.

4. Assistenza agli anziani oppure alle famiglie, come baby sitters, o come assistenza agli studenti, se dispongono di qualifiche idonee.

5. Ecc. Questi sono solo alcuni esempi. I cassintegrati dovrebbero essere classificati per zona di residenza e capacità di lavoro, ed essere poi messi sul “mercato”. Essendo lavoro “gratuito” per i beneficiari, andrebbero a ruba. Ma poi servono gli indirizzi strutturali, per riconvertire queste maestranze. Di che cosa abbiamo bisogno, quindi ?

a) Assistenza organizzata agli anziani. Il processo di invecchiamento della popolazione è irreversibile, ed anche in presenza di una politica di promozione della natalità, il numero degli anziani, pur falcidiato dal Covid, resterà elevato. Dobbiamo cambiare paradigma rispetto al modello attuale, fondato su RSA (alias cronicari anticamera della tomba) e badanti sempre di origine straniera.
E’ chiaro che poche persone sono disposte a spendere tutto il loro tempo assieme ad un anziano, vivendo assieme a lui. Questa condizione si può superare in maniera organizzata, con vere e proprie imprese di assistenza che impieghino più persone specializzate, ciascuna delle quali offra servizi specifici, con turni, rotazioni di compiti, ecc, in modo da rendere professionale questo servizio non meno di quello infermieristico ospedaliero, a costi sostenibili dagli anziani e dalle loro famiglie.

b) Assistenza infermieristica specializzata nelle strutture ospedaliere.
E’ nota l’insufficienza di queste maestranze, come quella dei medici.
Non si possono riconvertire le persone in medici, perché serve un pesante corso di studi.
Si possono però riconvertire molte persone in operatori sanitari per ogni lavoro che non richieda un corso di studi di tipo sanitario.

c) Operatori territoriali. Lamentiamo sempre la poca cura che abbiamo del nostro territorio nazionale, ma facciamo ben poco per la sua salvaguardia.
Affidare alla P.A. la cura del territorio significherebbe buttare soldi dalla finestra.
Altra cosa sarebbe dirottare una parte dei nostri consumi abituali ad un consumo di carattere meno individuale, ad una fruizione più collettiva, ambientale.
Significa imporre una TASSA, che può essere assimilabile alla TARI (tanto incassi tanto spendi) con il lavoro a carico di nuove imprese private finalizzate al controllo e manutenzione del territorio, con appalti assegnati dai Comuni.
Se ho una villa con giardino e posso permettermelo pago un giardiniere perché si occupi del mio verde. Qui sarebbe la medesima cosa. Il Comune dovrebbe fare soltanto da tramite, e da controllore, del lavoro appaltato ad imprese private.

Il punto è che i soldi non si creano dal nulla, e quindi i contribuenti dovrebbero rinunciare ad alcuni consumi per dirottare le risorse verso altri consumi. Non è facile.
Ci sono consumi rinunciabili e compatibili col mondo Covid? Non sono gli stessi per tutti.

1. Il cibo. Mangiamo troppo, e lo sappiamo, ed ogni occasione è buona, non solo a casa. Bar e ristoranti sono in ginocchio a causa della crisi epidemica. Molti non si risolleveranno. La ristorazione come sbocco lavorativo forse va ridimensionata.

2. Il “fitting”. Col Covid abbiamo chiuso le palestre. L’ambiente è la palestra migliore, se è gradevole e fruibile. Si tratta di scoprirlo, e si tratta di adattarlo ad una tale fruizione.
Chi lavora nelle palestre non potrebbe, forse, riconvertirsi come operatore territoriale?

3. Gli spettacoli. Sono il luogo di aggregazione di massa per eccellenza. Possiamo ancora permetterceli? Forse no. E’ davvero irrinunciabile la sala cinematografica disponendo dei grandi schermi domestici LCD ? Forse no. Ed il teatro? Non è forse vero che gli attori avrebbero maggiori guadagni se lo spettacolo venisse registrato e trasmesso in TV su canali dedicati ad un ben più elevato numero di spettatori?

4. Concerti, incontri sportivi, ecc. Stessa considerazione: ridurre i costi individuali ed aumentare la platea. Sappiamo che oggi i soldi si fanno con i “grandi numeri” ed un piccolo costo individuale. Se 10 milioni di persone mi regalassero solo 1 € sarei ricco.
Dobbiamo ridurre i costi individuali dei nostri attuali consumi, modificandone la forma di fruizione, per poter ampliare la base dei nostri consumi, estendendola a settori che sino ad oggi non abbiamo preso in considerazione.

5. La salute. Va bene il fitting, ma non è per tutti, e con il passare degli anni servono forse attenzioni diverse al nostro corpo, cioè centri benessere che aiutino a compensare l’invecchiamento dell’organismo.

Si può proseguire all’infinito. Le tipologie di consumo e di lavoro disponibili sono come i fili d’erba in un prato. Non si possono elencare tutte e tantomeno cercare di indirizzarle.
Il principio guida è quello di estendere consumi individuali, dove possibile, a consumi di massa capaci di ridurre i costi individuali, in modo da aumentare la base lavorativa.
Qui il ruolo dello Stato e della sua politica economica può essere soltanto di “suggerimento” e di facilitazione indiretta di tali sviluppi.

6. Difficoltà di ripresa futura del settore turistico.

Questo è un elemento chiave nell’economia italiana, stroncato dall’epidemia, salvato in extremis dal “liberi tutti” della stagione estiva, grazie alla sterzata dei turisti italiani dalle mete estere a quelle nazionali, ma fortemente compromesso e con prospettive non rosee per il futuro. Anche il turismo coinvolge i soliti settori comunque più colpiti; ristorazione, bar e alberghi. Negli anni scorsi si era rafforzata la convinzione che il turismo potesse diventare il “petrolio italiano” se sfruttato a fondo.
Un’idea da terzo mondo privo di altre risorse. Il settore ha dimostrato la sua grande fragilità, e non è compatibile con un mondo minacciato da crisi epidemiche serie.
Duole dire che per lo Stato destinare risorse a questo settore nella speranza di risollevarlo equivale a bruciare denaro su un falò. Il settore si risolleva da solo se riparte il suo mercato, cioè se cambia il clima grazie ad un drastico ridimensionamento del rischio epidemico.
Non è il nostro futuro, a mio avviso. Se in futuro potremo contare su strumenti di controllo più efficaci dei rischi epidemici bene, altrimenti non c’è speranza. Cosa può fare lo Stato?

1. Tentare di stimolare la costituzione di sbocchi turistici più circoscritti sul piano territoriale, ma per quanto ciascuno possa valorizzare quel poco o tanto che ha, le mete di maggiore interesse restano sempre le stesse.
2. Differenziare, per legge, i periodi di sospensione dal lavoro in modo da spalmare nel tempo l’affluenza nei luoghi d’attrazione.
3. Ridurre la durata dei periodi di ferie consecutive, con la medesima finalità del punto 2, un processo che, peraltro, è già in atto per conto suo.
4. Spostare alcune festività in modo da evitare i tradizionali PONTI.
5. Spalmare la presenza scolastica su tutti i mesi dell’anno, abolendo l’anacronistico lungo periodo delle vacanze estive o invernali. Significa concepire lo studio come una condizione permanente, analoga al lavoro, intervallata da pause frequenti ma brevi.

L’obiettivo è spalmare nel tempo la fruizione turistica, riducendo le presenze simultanee e favorendo uno sfruttamento economico migliore delle infrastrutture turistiche.
Non possiamo certo regolamentare l’afflusso dei turisti stranieri ma, quando riprenderà, forse dovrebbe essere contingentato, come si fa con le isole Galapagos, in modo da ostacolare i grandi flussi in alcuni periodi. Il turismo non deve essere più la nostra stella polare: non possiamo più permettercelo.

7. Crisi permanente della Sanità nazionale. Questo è un altro punto MOLTO dolente.

La sanità italiana ha dimostrato di essere ben poco “d’eccellenza” almeno sotto il profilo della capacità di tempestiva risposta sanitaria rispetto ai bisogni, e questo anche prima di questa emergenza, figuriamoci adesso. Questo è certamente un settore dove lo Stato può e DEVE intervenire direttamente, ma con una politica sanitaria interamente nuova.

Alcune linee guida.

1. Sanità gratuita soltanto al di sotto di una certa soglia di reddito (da determinare) e contributi alle spese sanitarie in una soglia intermedia. La copertura pubblica totale ha senso soltanto per le fasce di reddito medio basse. Chi dispone di risorse economiche importanti può ben investire in spesa sanitaria invece che in vini di gran marca o autovetture di lusso.
2. Suddivisione del sistema sanitario tra strutture pubbliche e private (come adesso) ma con una destinazione diversa, senza sovrapposizione. Ha senso che le strutture pubbliche si dedichino alla cura di quelle patologie che per il settore privato sono prive di interesse economico. Ed ha senso che il settore pubblico faccia fronte, come adesso, a crisi sanitarie di tipo epidemico. Deve, insomma, valere il principio di complementarietà, in cui il pubblico supplisce alle assenze o carenze del settore privato, non il contrario.
Ed i costi di intervento del settore privato debbono essere a carico dello stato, sotto forma assicurativa, per tutti i cittadini che rientrino all’interno delle soglie di reddito previste.
Ma occorre stimolare la concorrenza tra le strutture private per accaparrarsi le convenzioni col settore pubblico, che costituiscono certamente il “core businness” sotto il profilo quantitativo. In altre parole: concessioni a strutture ospedaliere in cui il rapporto prestazione/prezzo sia soddisfacente, con esclusione di altre.
3. Ripristino del ruolo del medico di base, restituendolo alla sua funzione originaria di MEDICO e non di burocrate della ricettazione. Significa rendere interessante per i medici questa professione, lasciando al cittadino la libera scelta del medico, come ora, all’interno di un elenco di medici accreditati, con una copertura di stampo assicurativo delle spese mediche in cui incorre il cittadino, controllando che non ci siano abusi. Quindi non libero accesso, anche quotidiano, allo studio del medico: per le confessioni c’è il prete. Ogni visita venga pesata. Ricettazione per via telematica, su richiesta via mail, come si sta già facendo adesso. Ma medici non burocrati, che possano fare i medici e VISITARE I PAZIENTI, anche presso il loro domicilio se e quando necessario.

8. Crisi finanziaria delle finanze pubbliche.

L’indebitamento italiano è interamente fuori controllo. Il governo in carica si sta ubriacando di stanziamenti miliardari, ancora in assenza di qualsiasi fonte di finanziamento europeo.
Lo fa, evidentemente, a debito, e posso solo immaginare che chi acquista i titoli sia il sistema bancario italiano. La situazione europea complessiva è così grave che nessuno apre bocca. BCE continua ad acquistare dalle banche titoli di stato, e la musica continua. Momento verrà in cui i nodi verranno al pettine. Come?
– Richiesta di restituzione graduale del debito, se gli altri paesi europei si saranno indebitati meno.
– Perdita di valore di cambio dell’Euro rispetto alle altre valute, a meno che il Dollaro non si deprezzi gravemente per motivi analoghi.

Possiamo sopportare la seconda opzione, con una perdita importante del nostro potere d’acquisto internazionale, che stimolerebbe un rientro delle produzioni verso il paese.
Non siamo in grado di sopportare il primo scenario. Possiamo impoverire (scenario 2) ma non possiamo soffocare, perché la restituzione del debito si fa ricorrendo alle tesse, sui redditi, sui consumi o sui patrimoni.
Possiamo predisporre delle linee di difesa? Non saprei quali, a parte la sospensione di ulteriori spese e la riduzione di qualsiasi spesa pubblica improduttiva, con ulteriore contrazione del PIL.
Chi si indebita NON è più libero ma alla mercé dei suoi creditori, salvo dichiarare bancarotta e rinunciare a qualsiasi credito futuro, mettendo anche in conto il fallimento del sistema bancario e l’azzeramento di tutti i depositi. Insomma uno scenario apocalittico.

Ing. Franco Puglia

Milano, 14 Novembre 2020