LA PERSONALITA’ UMANA ED IL RAPPORTO CON GLI ALTRI

Prendo spunto da un problema che vive indirettamente una mia amica, che riguarda però sua nipote, una ragazza di 22 anni, che avrebbe dei problemi di relazione esterna, con chi è dentro e fuori dalla sua cerchia familiare.
Il bambino, alla nascita, equivale ad un tubo digerente inconsapevole. La sua formazione cerebrale di impronta genetica, tuttavia, gli consente di acquisire rapidamente una crescente consapevolezza di se e del mondo esterno.
Le sue primissime manifestazioni comportamentali sono imperative, di bisogno vitale, cibo innanzi a tutto, ed intervento su altri bisogni secondari, ma comunque importanti, come la pulizia personale, l’induzione al sonno, e molte altre cose. Poco alla volta, con lo sviluppo e l’aumento della consapevolezza, il bambino inizia ad agire comportamenti più incisivi nei confronti dei genitori, che sono la sua unica fonte di confronto esterno, e poi, in seguito, con altre persone e bambini con cui impara a relazionarsi.
Questo primo periodo della sua vita è FONDAMENTALE per la caratterizzazione del suo futuro mondo di relazione e per lo sviluppo di sinapsi cerebrali, assenti alla nascita, che servono a determinare in maniera rapida, intuitiva, riflessa e non ragionata le sue reazioni comportamentali. Questa fase iniziale dello sviluppo determina in buona misura cosa sarà l’individuo in età adulta.

Le fasi di sviluppo successive contribuiranno allo sviluppo di quel bagaglio di collegamenti sinaptici tra neuroni e di accumuli mnemonici che costituiranno il patrimonio complesso di quell’essere umano, ma questa crescita probabilmente incide poco sulle sinapsi originarie, le fondazioni su cui poggia l’intera personalità. Ovvio che in molti si siano cimentati a studiare la materia, ma mancano gli elementi oggettivi per fondare teorie inconfutabili e scientificamente inoppugnabili sul funzionamento del cervello, che resta ancora avvolto tra le nebbie del mistero, per quanti progressi possano essere stati fatti nella sua conoscenza. Questo meccanismo è presente, assolutamente analogo, negli animali, dove viene chiamato IMPRINTING, e venne studiato anche da Darwin e descritto nelle sue teorie sull’evoluzione. Ecco perché la fase educativa familiare, genitoriale, dei primissimi anni di vita assume un ruolo fondamentale, formativo delle basi su cui il soggetto umano potrà costruire la sua personalità.

LE GESTIONE DEI CONFLITTI

Il bambino, nel corso del suo sviluppo, sperimenta l’esistenza dei conflitti in primo luogo con i genitori. Questo si può fare, questo no. Il bambino non ha ancora sviluppato il concetto di confine delle sue azioni, come anche il concetto di pericolo. Poco alla volta incontra ostacoli, di natura diversa, e reagisce irrazionalmente. I genitori aiutano il bambino a gestire queste difficoltà, prima in maniera grezza, poi, ci si augura, in maniera più ragionata, inducendo il bambino a razionalizzare la natura dei conflitti ed il modo di affrontarli. Il bambino si adegua, grosso modo, agli insegnamenti, li introietta, ma resta in lui una esigenza primordiale ed insopprimibile di autonomia di scelta, di superamento dei confini. Il solo modo infantile di misurarsi con il mondo esterno, nei primissimi anni di vita, sono i genitori, con i quali prova a confrontarsi con la disubbidienza, misurando la possibilità di superare degli ostacoli, oppure no, e valutando il peso delle sanzioni. Questa fase determina una prima struttura cerebrale di gestione dei conflitti, che immagino sia basilare e da cui immagino possano dipendere tutte le strategie successive dell’individuo. Crescendo, il bambino allarga il suo mondo e la sua rete di relazioni esterne, con una proporzionale crescita delle occasioni di conflitto, con in compagni, nella scuola, e poi, via via, con una pluralità di altri esseri umani, in età adolescenziale e poi adulta, nel mondo del lavoro, delle amicizie, degli amori.
La sua esperienza cresce ed i modi di gestione dei conflitti si diversificano in funzione della natura dei conflitti stessi, raggiungendo risultati soddisfacenti, oppure no.

LA GESTIONE DELLA PAURA E DELL’AGGRESSIVITA’

Paura ed aggressività sono due pulsioni emotive fondamentali in ogni essere vivente.
Sono pulsioni VITALI, da cui dipende l’esistenza stessa dell’individuo: questo DEVE avere paura quando il pericolo incombente può essere letale o comunque produrre gravi danni alla persona, e DEVE manifestare aggressività nella misura in cui questa sia utile ad allontanare il pericolo, sino alle sue estreme conseguenze distruttive. In natura l’aggressività ha anche scopi alimentari, tenendo conto del fatto che buona parte del mondo animale, oltre che umano, si nutre di altri esseri veneti animali, e non soltanto vegetali. Il bambino, ma anche gli animali, si rende conto delle conseguenze della paura e dell’aggressività mano a mano che si misura con queste. Il soggetto DEVE avere modo di confrontarsi con la paura, o con l’aggressività, per conoscerle, misurarle, gestirle in maniera proporzionata. La sua capacità di gestione ottimale dipende solo e soltanto dall’esperienza: non si può INSEGNARE. E l’esperienza porta con se tutti i suoi rischi. Nella fase educativa del bambino i genitori tendono naturalmente, ed egoisticamente, a tenere il bambino lontano dai pericoli (paura) e da condizioni che lo inducano a risposte aggressive. E’ comprensibile, ma NON è educativo, perché soltanto l’esperienza diretta educa una personalità in corso di formazione.
E’ ragionevole, quindi, confinare i rischi nei limiti tollerabili, non cercare di allontanarli a tutti i costi. Un bambino deve anche potersi fare male, e sperimentare il dolore fisico, facendo attenzione che il male che può farsi sia contenuto. Ed anche la sua naturale risposta aggressiva non va interamente strangolata, ma moderata, valutando attentamente le conseguenze. Non è facile, è chiaro, ma se non si vogliono affrontare queste cose è meglio non mettere al mondo figli che poi saranno disadattati. Paura ed aggressività entrano in gioco anche nelle relazioni tra i diversi individui, sia nel mondo animale che in quello umano. I due sentimenti emergono nel corso dei conflitti, che il soggetto può affrontare in forme diverse:
– evitando i conflitti, non appena ne percepisce l’odore
– sottraendosi ai conflitti con l’allontanamento, se non può evitarli altrimenti
– cercando di manipolare il conflitto, smorzandone i toni, riducendone la pericolosità
– reagendo aggressivamente nel conflitto, per indurre alla ritirata l’avversario
– dandosi alla fuga se il conflitto lo travolge con violenza
– scatenando la violenza di fronte all’aggressione violenta
Ovviamente questa è solo una schematizzazione e le cose possono svolgersi in maniera anche meno schematica, secondo le circostanze e la natura del conflitto.

LE PERSONALITA’ RISULTANTI DAL PROCESSO FORMATIVO

Nella nostra esperienza di vita abbiamo incontrato un’infinità di persone, tutte diverse tra loro, ma con alcuni caratteri assimilabili. La maggioranza di loro conduce una vita normale, affronta i suoi problemi più o meno bene, senza profondo disagio. Altri no: esprimono un disagio esistenziale che si esprime in forme diverse, ed in circostanze diverse.
La varietà dei soggetti e dei comportamenti non permette di fare molte classificazioni.
Possiamo dire che esistono alcuni comportamenti visibili che denotano alcuni caratteri:

  • Il prudente, che evita accuratamente qualsiasi situazione di rischio potenziale, sia nel rapporto con le cose che con gli altri. Può essere un soggetto visibilmente timido nelle relazioni umane, ma anche no. Può apparire disponibile verso gli altri, ma mai conflittuale, mai assertivo, sempre condiscendente. Può essere insincero, perché la sincerità espone a dei rischi In genere è accomodante, tollerante.
  • L’assertivo, sicuro di se e delle proprie convinzioni, poco incline ad accondiscendere a posizioni altrui che non condivide. In genere aperto nelle relazioni umane, può essere attrattivo ma altre volte arrogante, aggressivo. Dovrebbe essere sincero, in quanto non timoroso delle conseguenze che la sincerità può comportare, ma anche no: può essere razionalmente insincero per dare forza alla propria posizione, anche mentendo. I soggetti assertivi sono più disponibili ad assumersi dei rischi, sono pro-attivi, non passivi, possono essere intransigenti, possono essere anche violenti.
  • Il pauroso, che sopravvaluta i rischi potenziale, sia nel rapporto con le cose che con gli altri. Visibilmente timido nelle relazioni umane, anche sfuggente, sino alla misantropia/misoginia. Non è verso gli altri, non è conflittuale, mai assertivo, sfuggente. In genere insincero, perché la sincerità espone a dei rischi. Può essere aggressivo, anche violento, perché la paura, anche se a fronte di un pericolo sopravvalutato, mette il soggetto in una condizione di reazione estrema, dove entra in gioco la sua stessa esistenza.

Queste classificazioni sono il frutto della mia esperienza umana, e sono meramente indicative, schematiche, non esaustive, e la complessità delle personalità umane produce soggetti che non sono riconoscibili interamente in queste classificazioni.
E’ materia ludica per psicologi ed assimilabili.

IL COMPORTAMENTO: SONO QUEL CHE FACCIO.

Esistono diverse scuole di psicologia, da Freud in poi, e ciascuna analizza i comportamenti umani nella sua ottica, ma un elemento di fondo resta, ed è inconfutabile:
IL COMPORTAMENTO.
Indagare nei meandri della mente umana è impresa ardua, per non dire impossibile.
I comportamenti, invece, sono ben visibili a chiunque, anche senza laurea in psicologia.
E sono la sola cosa che conta veramente: importa a noi tutti QUELLO CHE FAI ! Perché lo fai, in fondo, è affar tuo, fa parte della tua sfera intima, che appartiene a te e a nessun altro.
Ma la cosa interessante è che TU SEI QUELLO CHE FAI.
Non solo: QUELLO CHE FAI DETERMINA CIO’ CHE SEI.

In altri termini, quello che tu credi di essere è irrilevante. Perché difficilmente sei davvero diverso da quello che fai. La tua natura, il tuo modo di essere sono condizionati dalle tue azioni. Ecco quindi che se hai un problema di relazione che ti crea un disagio esistenziale, il solo modo di superarlo è quello di modificare forzosamente il tuo comportamento, adattandolo alla circostanza che induce il disagio. Puoi riuscirsi da solo o con l’aiuto di uno psicoterapeuta di scuola comportamentale. Il risultato non è immediato, non è garantito, ma è la sola strada credibilmente percorribile per raggiungere qualche risultato.
Il meccanismo è quello innato, in noi come negli animali, della ABITUDINE. Il cervello tende a farci seguire comportamenti ripetitivi, prodotti per nostra scelta, o indotti dall’ambiente.
La costruzione della personalità passa attraverso un percorso formativo, autonomo e/o con l’aiuto di altri, che porti il soggetto ad individuare degli obiettivi, propri, individuali, ed a mettere in atto comportamenti ripetitivi che dimostrino di produrre i risultati voluti.

Facciamo tutto questo? No, a partire da me. Le nostre pulsioni sono spesso più forti, la nostra formazione è radicata e non usciamo dal nostro percorso di vita, non cambiamo, guidati dall’istinto più che dalla ragione, e ci becchiamo quel che ci spetta.
Questo SAPERE viene dall’Oriente, ed è antico di millenni …

Ing. Franco Puglia – 23 aprile 2025

IL SEME DELLA VIOLENZA

Viviamo in una società violenta; non è una novità: le società umane sono violente da sempre; l’evoluzione sociale e civile ha cercato di moderare nel corso della storia umana questo potenziale di violenza latente ed espresso, presente nella popolazione maschile, perché in quella femminile è solo l’eccezione, per motivi biologici.
Le regole del vivere comune, imposte con a forza, quindi ancora con la violenza più che con la convinzione, hanno funzionato come deterrente, consentendo un clima di convivenza tollerabile, almeno all’interno delle comunità, mentre tra comunità diverse i conflitti sanguinosi erano la regola, più che non l’eccezione.

Ed arriviamo ai giorni nostri, nel mondo moderno, civile, progredito e democratico, ma non ovunque, con regole e con un etica del rispetto reciproco, sostenuta anche dalle religioni, che stempera la naturale aggressività umana maschile. Eppure non è abbastanza, anche perché almeno i conflitti tra comunità nazionali diverse non sono mai cessati del tutto e lo sviluppo dei mezzi audiovisivi, dopo le comiche di Charlie Chaplin, ha introdotto la raffigurazione della violenza come elemento di una normalità che si voleva dimenticare.
E questa rappresentazione continua e costante della violenza si fissa nella mente dei bambini, inconsapevolmente, trovando terreno fertile nella natura biologica stessa degli esseri umani.
I conflitti sociali di ordine economico, poi, le difficoltà dell’esistenza, la riduzione degli spazi vitali determinata dalla densità di popolazione crescente hanno fatto il resto.
Oggi, quasi chiunque voi incontriate, nasconde un killer potenziale.
Basta un nonnulla a scatenare un inferno nascosto nel profondo dell’anima, e può essere uno sgarbo, un rimprovero, una aspettativa ritenuta legittima ma non soddisfatta, a scatenare una scarica aggressiva violenta.

E di fronte a questo che fare? Evitare le provocazioni, certo, ma talvolta la provocazione è assente, ma il soggetto violento che si sente offeso ti aggredisce, e tu come ti difendi?
La legge non ti aiuta: la legittima difesa viene equiparata all’offesa, o peggio, ed il legislatore e la Magistratura al seguito non si rendono conto del fatto che la difesa si realizza se previene l’offesa, perché l’offesa aggressiva può più spesso impedire qualsiasi reazione difensiva. Vissuto sulla mia pelle recentemente: per difendere il mio cagnolino minaccio un cane più grosso con un bastone da escursione e vengo aggredito dal proprietario, che cerco di allontanare col medesimo strumento, senza riuscirci, sino a quando sono costretto a colpirlo in forma non grave, ma non basta a fermarlo, prosegue nell’aggressione, da cui non ho più alcuna difesa salvo quella di colpirlo a morte col bastoncino nelle parti molli, cosa che non faccio, soccombendo, a rischio della mia pelle, con trauma cranico e tutto quel che segue.

E si finisce nel penale, con tribunale, avvocati, a seguito di inevitabili querele di parte, e la vittima rischia di diventare il colpevole, solo perché ha colpito per primo, sperando di allontanare la minaccia.
Il vero imputato, però, è LA LEGGE, quella che non protegge le vittime, quella che parla di eccesso di legittima difesa laddove la sola vera difesa possibile, per non soccombere, è mettere fuori combattimento l’avversario, e non può essere un incontro di pugilato, perché non è una competizione sportiva tra pari, ma può essere soltanto una reazione durissima, se possibile, con lesioni gravi, anche mortali.
E da vittima diventi colpevole; NO, tutto questo NON è accettabile, non si possono rovesciare le parti in causa, non è un incontro sportivo: chi aggredisce, o minaccia credibilmente di aggredire, e di produrre danno in assenza di difesa, DEVE sapere che lo fa a suo esclusivo rischio e pericolo, esponendosi a qualsiasi reazione, anche mortale nei suoi confronti.
Servono deterrenti credibili, tenendo conto del rischio di abusi, cioè di simulazione di un’aggressione mai messa in atto, allo scopo di aggredire chi non aveva nessuna intenzione di farlo.

Ing. Franco Puglia
Milano