Ogni epoca della Storia umana ha avuto i suoi conflitti. In passato i conflitti erano più “semplici”, più facilmente interpretabili. Oggi non più, perché le società del globo sono più complesse ed interconnesse in quel groviglio inestricabile di interessi e conflitti che confluiscono in ciò che noi chiamiamo GLOBALIZZAZONE. Nonostante questo possiamo individuare alcune grandi aree di conflitto, e su questa base cercare di orientarci, come paese e come individui.
1. Conflitto tra mondo della PRODUZIONE e mondo dei servizi, pubblici e privati.
Il mondo del lavoro ha una sua struttura piramidale: un qualsiasi prodotto finito, che vada al generico consumatore, è un prodotto di SINTESI di altri elementi, materiali ed immateriali, che concorrono a formare il risultato. Alcuni di questi elementi sono, per così dire, “indispensabili”, ma altri no. Sul prodotto finito incidono, ad esempio, costi FISCALI che servono a finanziare servizi pubblici ritenuti necessari, ma non sempre necessari, e non sempre insostituibili.
Il conflitto si esprime nel contrasto di interessi tra quanti ricavano il loro reddito da un lavoro alla base della piramide, e quanti invece lo ricavano da un lavoro a livelli più alti, specie se spesati dalle entrate fiscali (dipendenti pubblici) oppure da “servizi” imposti in rapporto a requisiti di legge che i produttori debbono rispettare, non richiesti per contribuire alla formazione del prodotto finito.
Questo conflitto supera, anche se solo in parte, l’antico conflitto tra “lavoratori” e “padroni” delle società dei secoli che precedono il 21° secolo attuale.
Gli interessi materiali di lavoratori e datori di lavoro coincidono, sempre di più. I livelli salariali e le condizioni di lavoro restano un motivo di conflitto con i datori di lavoro, ma hanno sempre di più un carattere negoziale, se non ancora “commerciale”, analogamente ad altre transazioni economiche più convenzionali.
Gli interessi delle classi sociali che, invece, prosperano sulla spesa pubblica e sulla proliferazione normativa (il mondo delle consulenze e similari) sono conflittuali con il mondo della produzione, perché lo ostacolano in diversi modi e costituiscono un onere economico che grava sui costi di produzione.
Mentre questo mondo dei “servizi” riesce a trovare rappresentanza politica grazie all’intima connessione tra mondo della politica e mondo della pubblica amministrazione, quello della produzione non riesce più a trovare una sua autentica rappresentanza politica, a causa delle altre fratture ideologiche che lo attraversano, e di cui parliamo nei punti che seguono.
Un poco a se il mondo della finanza, che è di fatto un servizio che NON crea valore, ma lo redistribuisce, e però non appartiene alla sfera pubblica, se non in misura marginalissima, ma viene percepito come conflittuale con il mondo della produzione.
2. Conflitto tra ideologie di stampo religioso e visioni pragmatiche della Storia
Le religioni, antiche come la storia umana, non si sono mai estinte. Il mondo occidentale avanzato è ancora fortemente influenzato dal Cristianesimo, nelle sue diverse impostazioni, mentre il mondo islamico attraversa una fase di crescita numerica (per motivi demografici) ed anche ideologica, con il ritorno ad un integralismo coranico reinterpretato in funzione di obiettivi di potere di minoranze politiche che lo usano come strumento per condizionare le coscienze.
Mondo islamico e mondo cristiano sono antitetici, per ragioni storiche, territoriali, culturali, ed economiche. Altri mondi che non si riconoscono in queste due correnti religiose principali, si rifanno ad antiche filosofie orientali ed a modelli misti di “religione laica”, come Cina e Giappone, ed in forme diverse tutto l’estremo oriente, con le eccezioni islamiche del caso.
La connotazione anche territoriale di questa fondamenta di ordine religioso acuiscono un conflitto che è anche economico, perché i territori in questione si trovano in fasi di sviluppo diverse tra loro, ed anche in competizione. Così assistiamo ad una crescente competizione conflittuale tra mondo occidentale e Cina, in maniera eclatante, ed in maniera meno evidente tra mondo occidentale e paesi emergenti in genere. Non si fa più sentire in maniera sensibile la competizione giapponese, forse anche per motivi demografici, correlati all’invecchiamento della sua popolazione.
La risoluzione dei conflitti
La politica ha, o dovrebbe avere, come asse portante della sua esistenza la MEDIAZIONE dei conflitti. In tal senso la politica si contrappone al sistema militare, che cerca di risolvere i conflitti con le armi, portandoli alle loro estreme conseguenze.
L’esperienza storica ci racconta che la politica, da sola, non è mai riuscita a risolvere i conflitti, salvo eccezioni, e neppure i conflitti militari, da soli, sono stati interamente risolutivi, perché le macerie che lasciano vanno poi ricostruite dalla politica.
Allora è naturale chiedersi se i conflitti attuali possano essere risolti soltanto con gli strumenti della politica, oppure no. La mia risposta, purtroppo, è no. Cioè, non interamente.
Una fase di scontro violento resta, purtroppo, propedeutica alla soluzione diplomatica.
E’ molto triste dover ammettere che il millenario percorso della civiltà non ci abbia fatto ancora superare questa infelice condizione.
La cosa più grave è che i conflitti che ho descritto sono anche trasversali tra loro. Non c’è guerra che possa determinare il confronto armato di questi conflitti tutti assieme. Perciò dobbiamo affrontare conflitti separati ed indipendenti, anche armati.
Prospettive italiane
Nell’immediato il conflitto più evidente che riguarda il nostro paese è quello delineato al punto 1, quello tra mondo della produzione e mondo dei servizi, pubblici in particolare.
Molto orientativamente si tratta di uno scontro tra la DESTRA e la SINISTRA italiane, ma questa è una grossa semplificazione, perché la “destra” che si esprime nei partiti noti non è propriamente espressione di un insieme di interessi omogeneo alla classe produttiva.
Quindi una vittoria elettorale delle destre non coincide con la sconfitta dello statalismo di sinistra, ma esprime soltanto una parziale vittoria di alcuni valori della destra rispetto a quelli della sinistra (nazionalismo contro terzomondismo, ad esempio).
In pratica è soltanto un aspetto di una medesima faccia della medaglia, come ben dimostrò la destra berlusconiana, espressione di una parte della classe produttiva, cioè di quella legata al potere statale, non diversamente dalla sinistra di potere, con Renzi e successori.
E la sconfitta della “sinistra” non può essere solo elettorale, perché “questa sinistra” permea tutto il tessuto di potere nazionale, dalla magistratura alle banche, alla pubblica amministrazione, compresa la scuola e le università.
Ed è qui che scatta lo stimolo bellico: non disponiamo di strumenti per una soluzione politica complessiva dei conflitti, perché i momenti elettorali creano alternanze all’interno di un medesimo sistema di potere, anche corrotto, qualsiasi connotazione abbia.
Questa debolezza nasce dalla insufficienza abissale del nostro sistema democratico, che non esprime democrazia neppure alla lontana, ma esprime soltanto uno strumento di alternanza di potere all’interno di un sistema politico statalista che ha regole precise ed immutabili, che ha creato una casta di persone in grado di controllare quasi tutto, mediando oltre il 50% del PIL nazionale.
E la popolazione, di fronte ad una rivoluzione democratica autentica, appare impreparata e non sa neppure da dove cominciare.
Resta quindi soltanto lo strumento dell’insurrezione popolare, sostenuta da risorse militari.
Se un tale sbocco sia realistico e con quale tempistica io non lo so, ma so che il sistema di potere versa in difficoltà crescenti, e l’aggravamento delle condizioni economiche, produttive e debitorie nazionali, determinato anche dalla pandemia, potrebbe portare già nel 2021 a sbocchi che appaiono improbabili in un paese assonnato come l’Italia, ma potremmo avere delle sorprese.
Uno sbocco di questo tipo non conduce finalmente alla creazione di una democrazia compiuta, ma si limita a RIPULIRE il sistema corrotto, destrutturando il sistema di potere esistente, almeno in parte, per ricostruirne un altro, su basi diverse ma analoghe, sempre di stampo verticistico e non democratico. Una fase di passaggio comunque inevitabile.
Prospettive internazionali
Il conflitto tra l’Occidente ed il mondo esterno ad esso, che non definirò “terzo mondo”, appare crescente ed insanabile. Trump ha avuto almeno il merito di “rompere il ghiaccio”, con la sua politica di rottura degli equilibri esistenti, sul piano economico, con restrizioni, più minacciate che realizzate, al commercio estero con gli USA.
I suoi progetti, poi, sono stati messi in crisi dalla pandemia e dalla disastrosa gestione americana, ma “il dado è tratto” e lo stimolo in quella direzione è passato, e trova sponda negli affioranti nazionalismi europei. Al di la dei giudizi sull’uomo, che in sé appare più un buffone che uno statista, le politiche di Trump segnano l’inizio di un ripensamento del modello di globalizzazione dei mercati sin qui messo in atto, che tuttavia non può non coinvolgere anche gli USA a rovescio, delimitando il potere di tante sue imprese multinazionali.
La pandemia rema nella medesima direzione, perché ci fa capire che la libera circolazione di merci e persone implica anche la libera circolazione di veleni, di qualsiasi natura essi siano, biologici o ideologici.
Inoltre gli squilibri esistenti, aggravati dalle nuove condizioni di sfruttamento dei mercati e dalle crisi interne dei paesi più deboli sul piano economico e politico hanno scatenato i fenomeni dell’immigrazione di massa e del terrorismo di matrice islamica.
La risposta a questi fenomeni è stata, in molti casi, quella delle armi (vedi Siria, ma anche Libia).
In un tale drammatico contesto, con l’economia mondiale messa in serie difficoltà anche dalla pandemia oltre che dai suoi problemi strutturali e politici locali, la bomba sociale dell’emigrazione non appare neppure ancora esplosa, ma con la pressione crescente quello che vediamo adesso è solo un insignificante assaggio di quanto può accadere.
Ed il contenimento della pressione migratoria non può non essere cruento: chi non ha molto da perdere si muove in massa, e che sia armato oppure no gli effetti del suo spostamento territoriale in massa sono i medesimi. Nessun paese al mondo può sopportare senza gravi danni l’impatto crescente di popolazioni “affamate”, in senso lato, portatrici di una diversa cultura e stile di vita.
La reazione difensiva violenta è inevitabile, qualsiasi cosa dicano i sostenitori della sostituzione etnica indolore a compensazione dei cali demografici.
Tutto questo, in un modo o nell’altro, conduce ad un drastico ridimensionamento dei rapporti internazionali, con tutto quel che segue, e con l’impiego di strumenti anche di carattere militare.
Nessuno ha avuto il coraggio, sin’ora, di fermare con le armi le carrette del mare invece di soccorrerle.
Nessuno ha avuto il coraggio di limitare gli ingressi extraeuropei provenienti da terra o dal cielo.
Ma oggi tutti questi movimenti di massa significano anche VIRUS epidemici, non soltanto elementi di destabilizzazione sociale.
E questo presumibile ridimensionamento degli scambi internazionali significa anche crollo di un PIL che negli ultimi decenni è stato fondato in maniera crescente su questi scambi, turismo in testa, con tutto il suo indotto.
Gli scenari che si aprono, quindi, sono più che preoccupanti, e dobbiamo prepararci ad affrontare tempi molto difficili, dopo il più lungo periodo di tregua della Storia umana, almeno in Europa.
Ing. Franco Puglia
31 Agosto 2020