LA VIOLENZA SULLE DONNE

Un tema ricorrente, purtroppo, di cui si parla in questi giorni. Si ascoltano i soliti discorsi, sempre quelli, all’interno del “politically correct”, senza sbavature, senza provocazioni.
Non è il mio genere. Su questo tema io ho un’opinione più articolata, che guarda al fenomeno come ad una condizione purtroppo endemica delle società umane, con radici biologiche e sociali antiche.

Gli elementi biologici sono insiti nella condizione dei due sessi, perché va detto: maschi e femmine NON sono uguali, ma profondamente diversi, sotto il profilo biologico e psicologico. Biologicamente le femmine hanno delle fragilità evidenti, determinate dal funzionamento del loro equipaggiamento ormonale, che le rende meno prestanti fisicamente (e non venitemi a parlare delle eccezioni), meno aggressive, fragilissime nel periodo della gravidanza e del successivo allevamento della prole. In merito a questo, tra le altre cose, la gestazione delle femmine umane è molto lunga rispetto agli altri mammiferi (salvo alcuni) ed i tempo da dedicare alla crescita della prole si misura in molti anni, non in pochi mesi.
Il maschio, al contrario, non ha il probelama della gravidanza, è dotato di massa muscolare ben più sviluppata rispetto alle femmine, a parità di attività fisica, ed ha un’aggressività molto più sviluppata rispetto alle femmine, determinata principalmente dal testosterone, e forse anche da altri elementi che non conosco.

Sin qui le differenze biologiche, che determinano quelle sociali sin dalla notte dei tempi. Nelle società primitive, millenni or sono, la differenza di prestazione fisica determina automaticamente il ruolo di cacciatore del maschio, con la femmina in subordine, dipendente dal maschio per procurarsi cibo, ed inchiodata alla sua funzione riproduttiva. Questo determina una inevitabile condizione di totale subordinazione, che si è estesa sino ai giorni nostri, perché la condizione di liberazione delle donne è conquista molto recente. Questa condizione ha avuto diverse articolazioni nel corso del tempo, e non sono mancati i casi in cui le donne hanno persino assunto ruoli apicali (pensate alle regine inglesi, senza voler scomodare Cleopatra) ma anche in quelle epoche il ruolo dominante del maschio era largamente preponderante e le femmine venivano di fatto VENDUTE come se si trattasse di una merce (matrimoni combinati, di convenienza, e non solo tra case regnanti).
Con un tale retroterra culturale non deve meravigliare che anche oggi il rapporto uomo-donna all’interno delle famiglie, come anche all’esterno, sia caratterizzato da una forte dominanza maschile, perché alcuni elementi che hanno determinato questo tipo di relazione non sono venuti meno:

1. La natura maschile resta aggressiva ed anche violenta, all’occorrenza, non meno che in passato.
2. Il senso di POSSESSO del maschio sulla SUA femmina rimane molto marcato, e le strutture sociali, in parte immutate, avvalorano con il matrimonio questa condizione di legame indissolubile che diventa facilmente patologico, più dai maschi verso le femmine che non il contrario.
3. La femmina è istintivamente più disponibile alla sottomissione, nonostante le grandi conquiste degli ultimi decenni, tra cui la frequente indipendenza economica. Quindi la coercizione del maschio nei confronti della femmina viene tollerata ben oltre i limiti della tolleranza, con giustificazioni addotte che appaiono poco credibili ad un’analisi razionale.
4. Emerge spesso nelle femmine un atteggiamento di stampo masochista, laddove nel maschio è più frequente il sadismo. La femmina può arrivare a formulare riflessioni che sconfinano nella patologia psichica quando tenta di giustificare quello che subisce senza reagire, tentando di sublimare le sue sofferenze in una missione salvifica nei confronti del suo torturatore, che lei crede di poter cambiare col suo amore, trasformandolo da diavolo in angelo.

Ricordo le lunghe riflessioni in merito con un’amica, decenni fa, che stava vivendo questo stato di disagio psicologico, anche se non aveve mai subito, e non ebbe mai a subire, violenze fisiche. Si, perché la violenza non arriva necessariamente all’aggressione fisica, e la sottomissione può prodursi anche in assenza di qualsiasi aggressione propriamente detta, ma anche di fronte a comportamenti del maschio che producono sofferenza, una sofferenza che si potrebbe far cessare interrompendo il rapporto.
E nei rapporti di coppia si innestano persino dei “giochi di ruolo perversi” in cui uno dei coniugi interpreta il ruolo del carnefice e l’altro quello della vittima, e tuttavia la vittima non si sottrae, anzi, sembra che non possa fare a meno di interpretare un tale ruolo.

Nei casi più gravi, quando i rapporti familiari si esprimono nella violenza fisica, e non soltanto verbale o diversamente esercitata, troppe donne si trovano in gravi difficoltà, e poche, parrebbe, sono capaci di sottrarsi per tempo, quando la situazione non è ancora deteriorata irreversibilmente, trovando una via d’uscita prima che accada il peggio.
Eppure dovrebbero essere in guardia: di violenza sulle donne si parla non da oggi; è un fenomeno ben noto, e di fronte ai sintomi dovrebbero essere in grado di riconoscerli e di agire di conseguenza, sottraendosi immediatamente. Eppure non accade. In troppi casi la donna si avvita dentro la situazione malata, sino alla sua spesso tragica conclusione.

L’aiuto esterno spesso non viene richiesto, ed è comunque difficile da dare; ho sentito spesso donne accusare le forze di Polizia a cui si erano rivolte di non aver avuto che poco o nessun aiuto. Bisogna però capire che la Polizia non ha molte frecce al suo arco: può intervenire di fronte a precisi reati, e debbono essere comprovati, e spesso non lo sono. Possono allontanare l’uomo dalla donna con una ingiunzione del Tribunale, ma non possono garantire protezione alla donna 24 ore su 24, ed un maschio assassino, se a piede libero, trova il modo di superare le difese predisposte.

In questi casi la sola strategia possibile per la donna è FAR PERDERE LE PROPRIE TRACCE. Non è una soluzione di diritto, perché la donna dovrebbe avere il diritto di vivere la propria vita dove e come vuole senza essere soggetta ad una minaccia. Nella vita, però, occorre fare i conti con la realtà delle cose, che non coincide con i “principi”. Anche un pentito di Mafia dovrebbe godere dei medesimi diritti di una donna in pericolo, ma la sola strategia di protezione possibile è farlo sparire, sia pure con l’aiuto dello Stato.

E prima ancora di dover fare fronte ad una condizione di questo tipo, le donne dovrebbero STARE LONTANO dai maschi pericolosi, allontanandosi quando percepiscono un potenziale pericolo. E invece no, anzi, le donne sono attratte più spesso dai mascalzoni che non dai bravi ragazzi. Qui forse scatta una pulsione istintiva, animale, che riconosce nel soggetto aggressivo, violento, spavaldo, un soggetto che garantisce meglio di altri la riproduzione della specie, una sorta di “maschio alfa”, come si dice oggi, o capo-branco, che appare più idoneo al successo riproduttivo sotto il profilo genetico.

Questo atteggiamento si osserva comunemente nei branchi di mammiferi, dove i combattimenti tra i maschi, più spesso incruenti, servono a determinare la dominanza nel branco ed il diritto di accoppiamento con le femmine, che si concedono soltanto agli elementi geneticamente più promettenti. Solo che nel mondo animale i maschi non esercitano violenza sulle femmine e si limitano ad accoppiarsi per la riproduzione; anzi, i maschi rispettano molto le loro femmine, e non cercano mai di accoppiarsi forzatamente se la femmina non è disponibile, anche perché sarebbe meccanicamente difficile.

Le conclusioni? Un problema forse senza soluzione, perché la sola vera soluzione si trova nella testa delle donne, nel loro modo di affrontare la vita ed il mondo di relazione con questi pericolosi soggetti che sono i maschi, che non possono trasformarsi in agnelli, soprattutto se il farlo determina la perdita di attrattività verso le femmine.

Ing. Franco Puglia – 22 Novembre 2020

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