COSTI DELL’ENERGIA ALLE STELLE: PERCHE’?

Pubblico qui, con miei successivi commenti, questo messaggio che ricevo dal liberale Istituto Bruno Leoni.

Caro energia: non serve uccidere il mercato ma farlo funzionare

Non è distruggendo il mercato o relegando a un ruolo di secondo piano gli operatori privati che ritroveremo la sicurezza energetica perduta. In questi giorni si stanno rincorrendo varie proposte che puntano a sovvertire il funzionamento dei mercati europei dell’energia, nel nome di una pretesa sicurezza energetica.
C’è chi dice: mettiamo in comune l’approvvigionamento di gas.
C’è chi aggiunge: introduciamo un cap ai prezzi per evitare che esplodano. C’è infine chi conclude: e anche per quanto riguarda l’energia elettrica, separiamo le fonti rinnovabili da quelle non rinnovabili, creando di fatto due mercati distinti, con regole diverse, per un prodotto omogeneo.

Non è il caso, in questa sede, di entrare negli aspetti tecnici di queste proposte. E’ essenziale però dire con forza che non solo esse non possono risolvere i problemi di breve o lungo termine che abbiamo davanti, ma che rischiano di aggravarli. I prezzi record del gas e dell’energia elettrica non dipendono da regole sbagliate: dipendono dalla scarsità dell’offerta rispetto alla domanda.

E questa scarsità sarà tanto più pronunciata se l’Europa deciderà di estendere le sanzioni contro la Russia alle commodity energetiche. Non c’è meccanismo di pricing che possa far spuntare il gas dove non ce n’è. L’unico modo per farlo arrivare è proprio il sistema dei prezzi: e non a caso le metaniere americane e di altri paesi produttori hanno puntato la prua verso l’Europa forse perché il presidente Biden le ha incoraggiate, ma soprattutto perché hanno colto l’opportunità di prezzi record.

Allo stesso modo, nei mercati elettrici tutti dicono che servono investimenti per diversificare la capacità produttiva, attirando tecnologie vecchie e nuove, dal nucleare alle rinnovabili e, nell’emergenza, dal carbone all’olio combustibile.
Ebbene, non è certo togliendo lo zucchero del profitto che renderemo il piatto più attraente. Quanto poi all’approvvigionamento comune, è appena il caso di ricordare che l’analogia coi vaccini è del tutto fuori luogo: nel caso dei vaccini gli Stati erano i monopsonisti e si rifornivano da un numero limitato di venditori (in Europa, quattro autorizzati).

Il gas invece proviene da decine di paesi, viene comprato e venduto da centinaia di operatori che a loro volta lo rivendono a centinaia di milioni di clienti grandi e piccoli. La domanda dei vaccini dipendeva interamente dalle decisioni dei governi; la domanda di gas dipende dall’attività economica, dalle temperature, dai prezzi e da mille altre variabili. Pensare di centralizzare queste attività tanto complesse, che richiedono professionalità del tutto assenti dal settore pubblico, è una utopia pericolosa.

Insomma: ci sono molte cose che gli Stati possono fare per facilitare una soluzione, garantendo la certezza degli approvvigionamenti nel breve e nel lungo termine. La più importante, anziché inseguire improbabili rivoluzioni, è rimuovere gli ostacoli agli investimenti: dalla burocrazia che frena le rinnovabili ai blocchi all’estrazione di gas.
Ci sono anche interventi di natura più emergenziale, di sostegno alle famiglie e alle imprese messe in ginocchio dall’inflazione energetica ad altre forme di incentivazione dell’efficienza energetica o del riempimento degli stoccaggi. Ma è bene evitare di ripensare le fondamenta di un sistema che funziona e ha funzionato per decenni, nel nome di una situazione tanto drammatica quanto eccezionale.

COSA NE PENSO
Io condivido l’impostazione di fondo di questo articolo del Bruno Leoni, che tuttavia non entra nel merito delle cause che hanno determinato questa ascesa dei prezzi.
Voglio intanto sottolineare una cosa: produrre gas metano, o petrolio, estraendolo dal proprio giardino, non altera il loro prezzo di mercato, perché nessun produttore svende le sue merci a prezzi inferiori a quelli di mercato, se non è costretto. Quindi la cosiddetta “autonomia energetica” serve a garantire ad un paese la disponibilità dell’energia, ma non il suo prezzo, se questa viene venduta da operatori LIBERI, e non viene prodotta dallo Stato per il fabbisogno nazionale esclusivo.
Quindi le opzioni sono solo due:
– Stimolare la concorrenza nel mercato, per far scendere i prezzi.
– Disporre di fonti energetiche di proprietà statale, ed impiegare solo queste nel paese, in forma autarchica.
E’ evidente che né l’Italia né l’Europa nel suo insieme possano pensare concretamente, e nel breve periodo, ad una autarchia energetica. Resta quindi solo la concorrenza, ciò che significa stimolare alcuni paesi produttori ad aumentare la produzione di gas e petrolio, facendola arrivare in Europa.
Si può fare, ma in cambio di che cosa? Già, perché la convenienza del produttore ad aumentare la produzione per far calare i prezzi esiste solo se nel confronto tra le due condizioni il produttore aumenta i suoi profitti, cosa improbabile al momento.
Oppure il produttore deve ottenere dei vantaggi di natura diversa, di ordine politico o economico generale.

Una domanda alla quale, per il momento, non ho risposta è: perché il prezzo dell’energia è schizzato alle stelle? La crescita è iniziata prima della guerra in Ucraina, che poi ha fatto schizzare i prezzi alle stelle per il timore di un crollo dell’offerta, venendo a mancare, in previsione, la produzione russa. Ma tutto questo non sta in piedi, per diversi ordini di motivi:
1. Il prezzo di gas e petrolio dipende dalla quantità estratta e distribuita su scala planetaria. Se anche il gas ed il petrolio russo si dirigessero verso la Cina, visto che la Russia non può fermare la produzione, i fornitori attuali della Cina avrebbero un surplus produttivo da dirigere verso altri mercati. A parità di domanda di mercato, quindi, la produzione non dovrebbe cambiare ed i prezzi neppure.
2. La domanda di energia dipende dallo sviluppo economico globale, che mi pare in contrazione, non in espansione, a causa delle condizioni economiche in cui versano parecchi paesi del mondo, sviluppo a cui la pandemia ha imposto una battuta d’arresto.
Il rimbalzo del PIL a cui stiamo assistendo con l’attenuarsi della pandemia è un recupero di PIL, non una crescita netta sulla condizione precedente, ed è un PIL “sporco”, perché alterato dall’inflazione, che aumenta il PIL monetario, ma non la quantità, e quindi il valore vero, delle merci prodotte, da cui dipende il consumo energetico a volume.

E quindi ecco la domanda: COSA stimola l’aumento generalizzato dei prezzi, con una impennata di portata storica?
Escludo che si tratti di un aumento dei volumi di produzione globali. E allora? Raffreddamento planetario con aumento dei consumi energetici per riscaldamento? Non pare credibile.
Resta solo una flessione importante dell’offerta, determinata non soltanto dal rischio russo, anche perché la Russia, per ora, non ha ridotto, che io sappia, la sua produzione. Mancano all’appello importanti produttori di petrolio, come il Venezuela, ma non da oggi.
E il Medio Oriente? Non c’è solo la Libia. E il mare del Nord? Ecc. Forse i GENI dell’Europa dovrebbero ragionare sulle CAUSE dei prezzi alle stelle, prima ancora che su soluzioni che appaiono scomposte ed emergenziali.

E PER CONCLUDERE:

Tratto da un articolo ISPI dell’11 Febbraio 2022
I prezzi del petrolio hanno recentemente raggiunto livelli che non si vedevano dal 2014. Il WTI, oggi, quota 113 $ al barile.
Tutte le materie prime, in particolare le fonti energetiche, hanno avuto aumenti di prezzo nel 2021 in relazione ad una forte ripresa economica ed un conseguente aumento della domanda di energia.
Il prezzo del petrolio in particolare è estremamente sensibile a cambi della domanda o dell’offerta.
Nel luglio 2008, il petrolio sorpassò i 140 dollari al barile ma, alla fine dell’anno, in seguito alla crisi finanziaria ed alla conseguente riduzione della domanda, il prezzo crollò intorno ai 30 dollari al barile.
Più recentemente, le misure di distanziamento all’inizio della pandemia avevano talmente ridotto la domanda di petrolio da spingere i prezzi a livelli che non si erano visti dalla crisi asiatica del 1998.
Aneddoticamente si può ricordare che il 20 aprile 2020, il cosiddetto Black Monday, la quotazione del West Texas Intermediate (WTI), il benchmark di riferimento statunitense, divenne negativa.
Il petrolio era diventato “spazzatura” che nessuno voleva comprare o anche solo stoccare e, in quanto tale, bisognava pagare una tariffa per disfarsene.
Bene: il PIL mondiale, e la conseguente domanda di energia, NON sono risaliti oltre i livelli pre-pandemia, quindi, razionalmente, il prezzo dell’energia avrebbe potuto, si, riprendersi, ma non schizzare necessariamente ai livelli attuali.
Vero è che i produttori dell’OPEC avevano ridotto la produzione, perché i livelli delle scorte erano arrivati alla saturazione e non potevano più assorbire ulteriore prodotto.
La risalita da questo “top down” di consumo e di produzione equivale ad uno “speed up” dei prezzi che anticipa la ripresa produttiva di petrolio e gas, ma quanto tempo ci vuole a riprendere una erogazione “normale”?
OPPURE NON SI VUOLE FARE?

Sul fronte della domanda, dopo una contrazione di 9 milioni di barili nel 2020, l’Agenzia Internazionale dell’Energia indica che, dopo un aumento di 5,5 milioni di barili nel 2021, un’ ulteriore crescita di 3,3 milioni nel 2022 riporterà la domanda globale ai livelli pre-Covid cioè attorno ai 100 milioni di barili al giorno.
Nella primavera del 2020, in piena pandemia, l’OPEC+ decise di ridurre la produzione di 10 milioni di barili.
Anche se successivamente la produzione è aumentata, l’OPEC+ non ha riaperto completamente i rubinetti privilegiando una politica di difesa dei prezzi piuttosto che di massimizzazione della produzione.
Così all’ultima riunione OPEC+ è stato deciso un magro incremento di 400.000 barili al giorno (0,4% della produzione globale di greggio).
Capite quindi che è in atto una GUERRA DEL PETROLIO (E DEL GAS) da parte dei paesi dell’OPEC verso i paesi consumatori?

C’è poi da aggiungere un incremento del prezzo del barile, difficile da quantificare, legato a rischi geopolitici in regioni di produzione o di transito di idrocarburi come il Golfo Persico, il Nord Africa, il Kazakistan e l’Ucraina. Nell’analisi della situazione attuale in Ucraina l’attenzione dei media è focalizzata sulle forniture di gas naturale, ma l’Ucraina è anche attraversata dall’oleodotto Druzhba che trasporta circa 1 milione e mezzo di barili di greggio al giorno.
Secondo JPMorgan, un’interruzione del transito del petrolio attraverso Druzbha farebbe schizzare il prezzo del barile a 150 dollari, provocando una frenata del 3% del Pil mondiale e portando l’inflazione al 7%, con conseguenze potenzialmente devastanti su scala globale.

Capite quindi quanto sia lecito il sospetto che dietro l’aumento dei prezzi ci sia una precisa strategia russa, meditata da tempo, che tiene conto del peso della Russia nell’OPEC e che prevedeva un brusco aumento della domanda di energia non appena si fosse allentata la pandemia, occasione irripetibile per tentare la sortita, agendo sui rubinetti dell’energia per condizionare Europa ed USA.

Ing. Franco Puglia

10 marzo 2022

POLITICHE GREEN E LE LORO ORIGINI

Le politiche “verdi” nascono da lontano, sulla scorta dello sviluppo di movimenti d’opinione ostili all’impiego massiccio dei combustibili fossili, petrolio in particolare, per sostenere il nostro sviluppo tecnologico ed industriale, ma anche civile, nel campo dei trasporti e della climatizzazione domestica.
L’ostilità verso l’impiego dei combustibili fossili più che col carbone prende forma pubblica con il petrolio. Perché?
Perché il petrolio imprime una svolta in accelerazione, impensabile, prima, col solo carbone, e determina una concentrazione di potere e ricchezza mai vista nelle mani di pochi paesi produttori e, soprattutto, nelle mani delle industrie capaci di sfruttare i giacimenti: le famose 7 sorelle, in prevalenza americane, e l’OPEC.
Già questo basta ed avanza per determinare ostilità diffuse verso questi produttori un poco monopolistici, ma a questo si aggiungono anche i danni collaterali della produzione petrolifera, a causa dei non pochi incidenti, con sversamenti di greggio su terra ma anche in mare, nel corso del trasporto verso le diverse destinazioni, con catastrofi ecologiche di grande portata e che lasciano una profonda impressione sull’opinione pubblica.

Poi inizia ad emergere il tema dell’inquinamento dell’aria, oltre che delle acque, già presente a dismisura nell’epoca in cui si bruciava carbone, e non ancora petrolio, unitamente alla legna secca, di gran lunga il combustibile più inquinante di tutti.
Il fumo nero che rivestiva i grandi conglomerati urbani non creava, però, allarme sociale. Era “normale”, faceva parte del vivere.
Ma con l’avvento del petrolio il fumo nero assume anche una connotazione politica: non è più nero di quello da carbone, ma forse è aumentato il consumo globale di entrambi, e la qualità dell’aria si è deteriorata sensibilmente.
La lotta politica animata dallo spirito antiamericano ed anticapitalista, dopo il 1945, determinata dal vento rosso della sinistra internazionale in epoca di guerra fredda USA-URSS imprime una spinta ideologicamente motivata a movimenti di persone che si definiscono VERDI e che auspicano un abbandono dei combustibili fossili ed un ritorno alla natura, compromessa dagli interessi delle cattive multinazionali del petrolio.
Anche le impennate dei prezzi del greggio, le restrizioni alla produzione decise da alcuni produttori OPEC, le “austerity” petrolifere conseguenti, fanno dire che occorre liberarsi dalla schiavitù del petrolio, cioè dai suoi produttori, per approdare al nuovo EDEN verde, impiegando energie rinnovabili, senza neppure sapere quali.
Alcuni STUDI interessati, poi, iniziano a sostenere che le riserve petrolifere sotterranee mondiali sono in fase di esaurimento e che quindi occorre iniziare a risparmiare energia ed è impellente trovare fonti di energia alternative.
Alcuni paesi scelgono l’opzione nucleare; altri, come l’Italia, la abbandonano lungo la strada.

Poco alla volta emerge un nuovo problema: il clima.
Chi più chi meno, in tutto il mondo, si inizia a percepire che il clima sta cambiando.
Fa più caldo, nelle regioni fredde i ghiacciai perdono volume glaciale, le perturbazioni atmosferiche diventano sempre più frequenti e distruttive.
Si moltiplicano gli studi in materia, e nasce una nuova disciplina: la climatologia.
Professorini disoccupati trovano uno sbocco professionale ben pagato dalle amministrazioni pubbliche in tutto il mondo.
I professorini indagano e scoprono una interessante correlazione tra la temperatura media stagionale sul pianeta e la concentrazione in atmosfera di alcuni gas, anidride carbonica (CO2) in particolare. Rilevano che ad ogni incremento della concentrazione atmosferica di CO2 corrisponde un aumento della temperatura media planetaria.
Hanno trovato l’assassino! Da dove proviene la CO2? Dalla combustione degli idrocarburi.
Il responsabile dei guai climatici planetari è la combustione di idrocarburi.
Le due battaglie si saldano: quella politica contro i monopolisti dell’energia si sposa con quella civile per la salute pubblica. La combustione degli idrocarburi non solo determina il surriscaldamento planetario ed i conseguenti disastri climatici, ma avvelena l’aria, perché alla CO2 si sommano gli altri prodotti della combustione, come le polveri sottili di carbonio, gli ossidi di azoto e di zolfo.

Il nemico è stato individuato; la guerra può iniziare; ed è iniziata …

Oggi sono pochi quelli che, nel mondo della scienza, e mai in quello della politica, denunciano le manipolazioni ideologiche che stanno alla base di questo TEOREMA del disastro planetario determinato dall’impiego dei combustibili fossili.
Ed opporsi non è facile, perché il fumo nero che avvolge la materia è un “fumo ideologico”, non è nerofumo di carbonio.
Occorre invece, ed è sempre più urgente ed irrinunciabile, operare una seria distinzione tra il varo ed il falso, su basi scientifiche.
COSA è vero ?

1. Che la combustione di petrolio e carbone abbia effetti collaterali, per sversamento accidentale di biomasse nei mari, con danni ambientali anche irreversibili, o reversibili su una scala di tempo lunghissima.
2. Che i prodotti della combustione immessi in atmosfera siano potenzialmente nocivi per la salute umana, se assorbiti a dosi elevate e per lungo tempo (tutti, ma non la CO2 !).
3. Che le riserve petrolifere prima o poi si esauriranno, ma non abbiamo elementi attendibili per dire quando; tutte le precedenti previsioni si sono rivelate infondate.
4. Che il pianeta si sia in qualche modo surriscaldato in questa epoca geologica, come ben dimostrato dal calo costante delle masse glaciali e delle nevi estive in alta quota sulle montagne.

E COSA è falso?

1. Che l’aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera sia determinata soltanto dalla combustione dei prodotti petroliferi, e che tale aumento determini un aumento della temperatura media del pianeta. Infatti è vero il contrario: ad ogni aumento di temperatura degli oceani e delle acque superficiali in genere, corrisponde un rilascio in atmosfera di gas disciolti, TUTTI i gas disciolti nelle acque, tra cui la CO2.
La combustione da un suo contributo, difficilissimo da stimare, ma è solo un contributo.
2. Che la CO2 sia un gas con caratteristiche fisico-chimiche tanto diverse dagli altri gas prevalenti in atmosfera (ossigeno ed azoto rappresentano il 99%) da poter determinare, pur con la sua men che modesta presenza (0,04%) un effetto SERRA di cattura del calore che la terra restituisce allo spazio nelle ore notturne. E’ un FALSO scientifico.
Il solo gas presente in atmosfera con caratteristiche di questo tipo è il vapore d’acqua, e non a caso è questo che determina visibilissime nubi, piogge, nevicate, tempeste e quant’altro.
3. Che il nostro modello di sviluppo economico, vorace consumatore di energia, possa fare a meno dei combustibili fossili, avvalendosi delle sole, poche, fonti di energia rinnovabile che si possono mettere in campo in maniera massiccia (eolico e solare), fonti, anche queste, non prive di ricadute ecologiche negative. E non dimentichiamo che abbiamo triplicato in soli 50 anni la popolazione mondiale di consumatori d’energia, passando da circa 2,5 a circa 7,5 miliardi di umani, senza contare gli animali domestici correlati.

Ed in tutto questo è stato dimenticato qualcosa: quale che sia la fonte di energia, fossile o meno, alla fine di tutti i processi in cui viene impiegata la sua forma finale di trasformazione è: calore ! Tutta l’energia che impieghiamo diventa calore, che viene irradiato verso lo spazio, di notte, in una misura di circa il 30%, assieme a quello ricevuto dal sole, mentre il 70% circa resta a terra, e viene metabolizzato in qualche modo dal pianeta, trasferito agli strati profondi delle terre e delle acque, metabolizzato dalla vegetazione, ecc.
Quindi, senza scomodare i gas serra, è evidente che il calore di produzione antropica, DA QUALSIASI FONTE PROVENGA, contribuisce a destabilizzare il clima del pianeta, ma non siamo in grado di sapere in che misura incida sul bilancio energetico globale.

In conclusione, le politiche VERDI che oggi sono tanto in voga ci promettono un impatto materiale pesante sul nostro stile di vita, a prevalente vantaggio di chi riuscirà ad essere tra gli operatori economici di questi cambiamenti.
La loro realizzazione, tuttavia, avrà un esito fallimentare, perché:
1. Le fonti di energia alternative sono e resteranno insufficienti per sostituire la combustione dei prodotti petroliferi.
2. La transizione da unità di produzione di energia localizzate, che fanno uso di combustibili, a quella basata sull’elettricità, che richiede trasmissione a distanza, implica uno sforzo insostenibile sotto il profilo della distribuzione capillare di potenze elettriche rilevanti.
3. L’accumulazione dell’energia elettrica in batterie, quale che sia la tecnologia impiegata, presenta su scala di massa problemi insormontabili di accesso alle materie prime e di smaltimento dei rifiuti.
4. Anche una decarbonizzazione totale non può avere alcun effetto sul clima, a parità di energia consumata, perché la quantità di calore immessa in atmosfera non cambierebbe, e la diminuzione eventuale di CO2 non avrebbe alcuna influenza.

Potrebbe migliorare la qualità dell’aria nei grandi conglomerati urbani; questo è innegabile, ma non cambierebbe con questo in maniera vistosa la mortalità per malattie polmonari, a cui gli inquinanti attuali contribuiscono in maniera limitata e non facilmente stimabile, perché l’aria pulita non distrugge i virus e batteri, che attraverso l’aria raggiungono le nostre vie respiratorie, e la mortalità dipende essenzialmente da loro (Covid insegna), non dalla polvere, che possiamo respirare anche su una spiaggia marina ed in qualsiasi luogo all’aperto dove il vento sollevi la polvere impalpabile ed invisibile del terreno.

La sola SOLUZIONE che, invece, dovrebbe salvare capra e cavoli, si chiama RIFORESTAZIONE massiccia su scala planetaria, perché il mondo vegetale assorbe l’energia termica in eccesso che noi produciamo, consuma la CO2, anche ammesso che abbia un “effetto serra”, e ci offre in abbondanza un materiale da costruzione (il legname) che è un ottimo isolante e quindi aiuta nel risparmio energetico di edifici realizzati col legname. Ma è un “business” che non attira, perché gli alberi ci mettono del tempo a crescere, prima di poter essere sfruttati economicamente, e nel frattempo non producono reddito e, semmai, costano in manutenzione.
E allora avanti con le politiche “green”, aventi con le martellate sui genitali, e che Dio illumini queste generazioni disgraziate, e fra alcuni anni anche disperate.