REDDITI, POTERE D’ACQUISTO E INFLAZIONE

In questo scorcio ferragostano infuria la polemica sul salario minimo, visto che l’inflazione sta erodendo rapidamente il potere d’acquisto dei redditi fissi, da lavoro o da pensione. Il salario (brutta parola !) o per più civilmente dire il compenso per un lavoro dipendente, non ha un valore assoluto in se, se non in rapporto al COSA e QUANTO permette di acquistare nel mercato di riferimento del percettore di reddito. Ne consegue che, se si volesse davvero stabilire che un lavoratore dipendente non possa essere pagato meno di un certo quid per ora lavorata, per umile che sia il suo lavoro, la cifra dovrebbe essere stabilita in LITRI DI BENZINA, ad esempio, piuttosto che in moneta. Infatti ciò che conta è quanta benzina, o bene equivalente, posso acquistare con il mio reddito, non il suo equivalente monetario.

Questo è un primo aspetto del problema.
Il secondo, non meno rilevante, è la dinamica dei prezzi al consumo, che in epoca d’inflazione brucia rapidamente il potere d’acquisto di qualsiasi reddito fisso. A cosa serve fissare OGGI un compenso minimo (9 € ?) se nel giro di qualche anno il suo potere d’acquisto REALE si dimezza? Si aggiorna la cifra? Certo, ma si dovrebbe fare come minimo una volta all’anno, se l’inflazione non si azzera, e non lo farà.
E se si procede in questo modo si stimola la crescita inflazionistica perché la domanda di consumi, ammesso e non concesso che si possa adeguare in continuo il potere d’acquisto all’inflazione REALE, ha l’effetto inevitabile di sostenerla, perché sostiene quei medesimi livelli di consumo che hanno determinato, o contribuito, alla spinta inflazionistica.
Questa esperienza la abbiamo già avuta, decenni fa, con il meccanismo della “scala mobile”, che sosteneva parzialmente i redditi da lavoro dipendente in rapporto all’inflazione.
Si determinò un meccanismo d’inseguimento inflattivo sino a quando non venne abolita e, soprattutto, dopo la doccia gelata del passaggio Lira – Euro, che dimezzò in un colpo solo il potere d’acquisto dei redditi da lavoro e da pensione.
MA QUESTA GENERAZIONE POLITICA HA UN MINIMO DI MEMORIA STORICA?

E sin qui non ho fatto menzione di principi economici quali il rapporto tra domanda ed offerta che dovrebbe stabilire il punto d’equilibrio tra remunerazione proposta, ed accettata, e produttività economica della mansione proposta.
Imporre per legge una paga oraria minima non è necessariamente in contrasto con questi principi, se le condizioni reali del mercato consentono di muoversi al di sopra di una tale soglia.
E torniamo al mercato, cioè al valore di ogni attività economica ed ai costi che deve sostenere in rapporto al prezzo di vendita sostenibile.
Se una attività economica è molto povera, cioè produce cose di poco valore, il costo di produzione, lavoro compreso, deve essere di parecchio inferiore al prezzo di vendita che il mercato sostiene.
E se il costo del lavoro è troppo caro, in rapporto al prezzo di vendita, quella attività non sta in piedi, a meno di non sacrificare il costo del lavoro, ciò che un tetto salariale impedirebbe.
Quindi delle due l’una: o chiudi l’attività o i lavoratori vengono “sfruttati” in rapporto al mercato, e cadono in povertà.

Come se ne esce? NON se ne esce. Non si possono tenere in piedi attività POVERE in un paese RICCO, dove i prezzi al consumo, TUTTI, sono molto elevati.
Se si vogliono poter sostenere i livelli di consumo di un paese mediamente ricco, questo può tollerare soltanto attività locali che NON siano a basso valore aggiunto.
E chi non ha la cultura e capacità per svolgere un lavoro più qualificato? Non ha altra scelta che spostarsi in un paese meno ricco, più povero, dove i prezzi al consumo siano più bassi, lavorando in attività più povere.

Un problema, però, è che anche nei paesi ricchi esiste una domanda di lavoro POVERO, al quale, cioè, non può corrispondere una remunerazione elevata perché, altrimenti, quella prestazione lavorativa non è appetibile.
Anche qui vale la legge della domanda e dell’offerta, ma sino ad un certo punto: infatti, se la richiesta di una data prestazione è elevata, per umile che sia, il suo prezzo in rapporto alla disponibilità di lavoratori può crescere a dismisura, se i lavoratori disponibili sono pochi, sino a quando, però, si ferma, perché i costi non sono sostenibili da chi richiede la prestazione, e TUTTI rimangono a bocca asciutta. In genere, però, si raggiunge un equilibri DI MERCATO.
Le cose buttano male quando l’offerta di lavoratori generici, per prestazioni a basso valore aggiunto, diventa elevata: a questo punto la remunerazione crolla, perché sono troppi quelli che vogliono accedere alla limitata offerta di lavoro.
Mettiamo un limite per queste categorie ? Si può fare, ma la competizione tra chi cerca lavoro si sposterà su altri piani; se ci sono 100 posti di lavoro e 1000 richiedenti, solo 100 lo avranno e gli altri sono a spasso. La competizione quindi è serrata.
100 avranno quel lavoro, ma non di più. E se non ci fosse un limite salariale? Magari l’offerta di lavoro sale a 200; lavoro per più persone, ma meno pagato. Cosa è meglio?
Certo, se i 900 che sono rimasti tagliati fuori vengono pagati dallo Stato, allora meglio rinunciare da subito alla competizione, anche per gli altri 100.

Come si vede è complicato e senza soluzioni ottimali.
Al fondo di tutto c’è un mondo con TROPPI POVERI, che non hanno competenze di lavoro o competenze molto modeste, e che ricadono inevitabilmente in uno stato di povertà che si può solo cercare di alleggerire con interventi mirati, ma uno ad uno, non con politiche generalizzate. Assistenza sociale DEVE significare quel che la parola dice, non solo posti di lavoro per quelli che la esercitano.

Ing. Franco Puglia
11 agosto 2023




LA PROPRIETA’ E’ UN FURTO ?

Un frase celebre, che credo sia stata pronunciata da Karl Marx, o da altri in area marxista (non lo ricordo, ma è irrilevante).
Una frase che ha caratterizzato il conflitto politico e sociale tra la sinistra, in tutte le sue sfumature, e la destra, da quella propriamente liberale alle differenti espressioni della destra politica.

Questa frase, formulata come domanda, che risposta sensata può mai avere? NO, e tuttavia si tratta di un NO ideologico, come l’alternativa del SI, perché alla luce di un’analisi spassionata e non condizionata da incrostazioni ideologiche qualsiasi, la realtà delle cose appare più sfumata.
Infatti bisogna riflettere in chiave storica, e bisogna riflettere sul COME e QUANDO si siano formate le tante proprietà.

La proprietà delle cose è, prima di tutto, una NECESSITA’ individuale irrinunciabile, perché vitale, se limitata al possesso esclusivo di tutto quello che determina la tua capacità di sopravvivenza, e questo include anche una cosa essenziale come IL TERRITORIO, indispensabile anche nel mondo animale, che lo difende con le unghie e coi denti.
Ma noi siamo esseri umani, e la nostra valutazione di ciò che ci è indispensabile, oppure no, è molto elastica.
Sappiamo bene da dove nasce il marxismo e, più in generale, tutta l’ideologia di sinistra, in tutte le sue sfumature: nasce dalla lotta contro lo strapotere di pochi sulle masse, i NOBILI, che possedevano tutto, ed il proletariato, che non possedeva quasi nulla.
Nella moderna concezione di proprietà questa nasce da una condizione di diritto, non da un’appropriazione di fatto, ma in passato non era così: la proprietà si conquistava a fil di spada, con la forza, con la violenza. Questo modo di acquisizione della proprietà è andato avanti per secoli, integrato, col passare del tempo, da trasferimenti di proprietà di natura economica, in forme legali, perché conveniente per grandi proprietari, senza dover ricorrere all’uso della forza. La commistione tra acquisizioni LEGALI e forzose, comunque, si trascina sino ai giorni nostri: basti pensare a situazioni come quella del conflitto russo-ucraino, dove un paese, la Russia, pretende di annettersi con la guerra un pezzo di territorio ucraino, se non il paese intero. Queste forme violente di acquisizione territoriale hanno dominato gli scenari europei, e mondiali, trasformando la geografia degli stati, e neppure ai giorni nostri il processo si è totalmente esaurito.
Ma il modus operandi per l’acquisizione delle proprietà non passa soltanto attraverso l’uso della forza, o delle transazioni commerciali: si è prodotto, in passato, anche attraverso l’occupazione, che potremmo considerare ABUSIVA, di territori che appartenevano a TUTTI e a NESSUNO, ma che sono stati incamerati da privati che hanno reclamato il possesso di territori di nessuno, solo perché occupati da loro per primi. Basti ricordare la conquista dei territori nordamericani, sottratti ai nativi che li occupavano senza reclamare confini. Ma anche dalle nostre parti non è stato così diverso: appare evidente sui territori alpini, dove la natura selvaggia e poco abitabile offriva soltanto legname, poco pascolo per le greggi e poco terreno coltivabile. Territori abitati da poca gente che viveva poveramente di quel poco che poteva ricavare dalla terra, e che ha occupato aree di territorio per coltivarle o pascolare le greggi, stabilendo rapporti di vicinato con confini determinati da mutui accordi di non interferenza.
Aree molto vaste, ovunque potessero estendersi le capacità di sfruttamento dei nuclei familiari che abitavano quei territori.
Poco alla volta questi territori occupati sono stati trasformati in proprietà, indivisibili, come in Alto Adige, con il famoso sistema del “maso chiuso”, o divisibili, come altrove sulle Alpi.

E veniamo a chi nasce ai giorni nostri: si trova davanti un mondo in cui ogni cosa appartiene a qualcuno, magari da secoli, in chiave ereditaria, ed ogni spazio è precluso, salvo comprarlo con soldoni sonanti, se sei in grado di produrli, o anche tu li hai ereditati.
Grazie a questi meccanismi esistono aree vaste del nostro paese, ed altrove nel mondo, che invece di essere DI TUTTI, a disposizione di tutti, appartengono a qualcuno, in esclusiva, sottraendo magari alla fruizione pubblica alcune perle del territorio, come troppo spesso accade sulle più belle coste italiane.

Nei decenni scorsi alcune amministrazioni pubbliche hanno cercato di opporsi alla colonizzazione del territorio in località di pubblico interesse, come sulla costa della Sardegna, ad esempio, dove non si può più edificare a ridosso delle spiagge.
La condizione delle proprietà fondiarie, tuttavia, resta fortemente condizionata dal passato, ed è difficile, ormai, rimediare all’arbitrio dei secoli scorsi. Così può capitare di passeggiare in un bosco senza sapere che quel bosco APPARTIENE A QUALCUNO, che di quella proprietà, magari, non sa neppure che farsene, se non è suscettibile di un qualche sfruttamento.
Ma vale anche per grandi aree agricole, terreno coltivabile, che non si trova ovunque, oppure edificabile, anche questo raro, che non è accessibile ai nuovi nati, a meno di disporre di risorse economiche ragguardevoli. I LATIFONDI, eredità del passato, in possesso ai grandi proprietari terrieri di derivazione nobiliare, sono in buona misura scomparsi, frazionati, distribuiti, a titolo oneroso ed a vantaggio dei proprietari originari, ma con le colture intensive anche molti fondi odierni appaiono come latifondi a chi mai volesse intraprendere una attività agricola partendo dal niente, come fecero i nostri padri.

Per concludere, si, la proprietà individuale è importante, essenziale al vivere, e va difesa, ma NON è SACRA, bensì subordinata all’interesse collettivo della società civile che permette al privato di vivere e svilupparsi e godere del suo, cosa che, come individuo isolato, al di fuori di un qualsiasi contesto sociale, non potrebbe mai fare.

Ing. Franco Puglia
2 agosto 2023