Questo quadro di Eugène Delacroix descrive in una sintetica immagine dove NON vogliamo arrivare. Ma è qui che ci conducono le politiche di tanti nostri connazionali, non lontane da quelle europee. E queste politiche vengono sostenute, purtroppo, dall’ignoranza diffusa e dall’incapacità di analisi della realtà della maggioranza degli italiani, unitamente ad una rete di interessi consolidati che ostacolano qualsiasi cambiamento in chiave di progresso vero, non di finto progressismo di sinistra.
Siamo ad elezioni anticipate, attese da molti, contrastate da tanti altri. La parabola di Draghi, come tante altre, è giunta al termine; me ne dolgo? Si è no. L’uomo, certamente, emerge al di sopra della massa informe della nostra politica, ma questo non mi basta. Ho apprezzato il fatto che fosse un uomo del FARE, ma di QUALE fare è un altro discorso. Draghi mi sembra appartenere ad una classe sociale orientata alla nuova sinistra, quella tinta di verde invece che di rosso, ma con tutti i limiti, per non chiamarli diversamente, di questo orientamento politico. Ne è prova l’aver favorito una politica monetaria europea molto espansiva, tipica dei Keynesiani, forse anche necessaria in alcuni momenti ma espressione, comunque, di una visione degli stimoli allo sviluppo che appartiene alla tradizione socialista, non a quella liberale.
Adesso siamo di fronte alla tornata elettorale del 25 Settembre: per arrivare dove? Cosa cambierà l’assenza di Draghi? Certo, auspicabilmente avremo un movimento 5 stelle ridotto alla inconsistenza e non più in grado di nuocere, condannato a vociare dall’opposizione, ma ci saranno una maggioranza ed una opposizione? Non è scontato. Il successo del centro destra a trazione Meloni, più che Salvini, con la coda berlusconiana, non è poi tanto gradito alla maggioranza degli Italiani, che sono alla ricerca di ALTRO, una alterità che non hanno la capacità di immaginare e tantomeno di esprimere. Quindi una prospettiva possibile e realistica è la frammentazione, e l’impossibilità di formare una maggioranza di governo. Se invece il centro destra riuscisse a raggiungere la maggioranza relativa dei voti, pur di fronte ad un astensionismo massiccio, quali sono gli esponenti di rilievo capaci di formare un governo credibile, capace di invertire la rotta e di allontanarci da quello scenario desolante espresso nel quadro di Delacroix? Nessuno ha la risposta.
Inutile dire che serve un nuovo e credibile movimento di massa capace di staccarsi dalla palude socialista i cui miasmi stanno soffocando l’Europa ma anche dalle rigidità della destra storica, quella che si ispira più al fascismo che alla democrazia, quella pur sempre statalista e non liberale, anche se non all’interno di una visione ideologica socialista. E serve anche imprimere una robusta svolta all’intera Europa, non soltanto all’Italia, all’interno di un clima internazionale drammatico, condizionato dalla feroce guerra della Russia contro l’Ucraina. Non solo, perché questa guerra, all’interno di una situazione economica deteriorata dal caro energia e dall’inflazione, sta riproponendo una spaccatura profonda, ma anche ostile, tra Occidente, espresso dal patto atlantico anche inespresso tra USA ed Europa, ed il continente eurasiatico, che va dalla Russia alla Cina, con connivenze pericolosissime nel mondo islamico, a partire dalla Turchia, un incredibile partner della Nato, amico della Russia, certo non dell’Europa, serpe in seno all’Occidente, che preferisce far finta di niente, per non consegnare ufficialmente alla Russia il deterrente militare turco oggi almeno neutrale, se non concretamente alleato dell’Occidente.
Ma la ricostruzione di una politica liberal popolare richiede tempo, mentre le nostre elezioni sono DOMANI, e manca il tempo per fare qualsiasi cosa. Ma si potrebbe almeno iniziare, cominciando a porre le basi per affrontare un futuro che si presenta pieno di incognite.
Un’affermazione formulata da uno sciocco o comunque ignorante mi stimola a formulare queste riflessioni su un tema annoso, su cui si sono scritti libri su libri e che ha improntato gli ultimi due secoli di storia umana: il conflitto tra pensiero liberale e pensiero socialista, ovvero tra capitalismo e comunismo, con tutte le altre sfumature espresse con parole diverse. Questa affermazione dice che le tasse si debbono far pagare al capitale non alle persone. In altri termini: patrimoniali tante, IRPEF ed assimilabili no. Questo approccio, tipicamente comunista, nasce da un processo di analisi che ha una sua logica, ma che eccede alla grande anche le analisi di Karl Marx, padre indiscusso del comunismo come lo conosciamo.
Cominciamo col dire una cosa: tutte le teorie economiche a sfondo sociale hanno come obiettivo “teorico” il benessere delle persone, grazie allo sviluppo dell’economia, dei loro redditi, dei loro consumi. Il conflitto poi nasce dalle “differenze” che i diversi sistemi socio economici producono, non assegnando a tutti gli individui la medesima quota di benessere. Le “differenze” tra le persone, in termini economici, dipendono dalla loro capacità di disporre dei beni necessari al loro benessere, o producendoli da se, oppure acquistandoli da altri, in cambio di qualcosa. Qui si impone una domanda: è possibile produrre qualcosa in assenza di “capitale”? La risposta è : NO. E va chiarito cosa sia il “capitale”. L’uomo primitivo, per procurarsi cibo, cacciava animali, li uccideva e li mangiava. Per riuscire nel suo intento usava una clava, ho una pietra scheggiata. Questi attrezzi erano il suo “capitale”. Senza di loro non avrebbe potuto uccidere le sue prede, non quelle più grosse, almeno. Oggi, un cacciavite è “capitale”; provate ad avvitare una vite “senza” un cacciavite. Impossibile.
Questi banali esempi ci spiegano che il solo lavoro umano (girare il cacciavite) senza capitale (il cacciavite) non è in grado di procurarci quello di cui abbiamo bisogno. Il mondo moderno, ma anche quello dell’epoca di Karl Marx, è fondato sulla presenza di lavoro e capitale, dove quest’ultimo significa attrezzi e macchine, ma anche soldi, che altro non sono che una certificazione di un valore che deriva da uno scambio economico sostanziale (merce o servizi in cambio di merce o servizi). Ma da dove nasce il capitale? Nasce dalla differenza, accantonata, tra il valore di mercato di quello che si produce, ed i costi sostenuti per produrre. Marx chiamava questa differenza plusvalore, ed oggi lo chiamiamo utile lordo. Se questo utile lordo, in tutto o in parte, non viene devoluto per altri scopi a chi ha la proprietà dell’impresa, il suo valore diventa “capitale” dell’impresa, e può essere convertito in macchinari, o altre forme idonee a produrre altro utile all’impresa, ed anche opportunità di lavoro per qualcuno. Se l’impresa non fa utile, cioè non produce capitale, si ferma, perché il capitale di cui dispone (macchine, ecc) si deteriora nel tempo, e mancano le risorse per rinnovare gli impianti, o renderli più produttivi. Qualsiasi imposizione fiscale su questo utile d’impresa non distribuito riduce la capitalizzazione dell’impresa e quindi il suo potenziale di sviluppo e la sua capacità di offrire nuove opportunità di lavoro e quindi di reddito per qualcuno.
Quindi sarebbe auspicabile che, almeno in linea di principio, la fiscalità applicata all’utile d’impresa fosse pari a zero. Ed è anche essenziale chiedersi quale sia lo scopo della fiscalità, in generale. Le tasse sono indispensabili al finanziamento dello Stato, inteso in senso lato come cosa pubblica, come istituzione collettiva il cui scopo è quello di fornire a tutti i cittadini i servii essenziali, partendo dalla sicurezza e difesa del territorio e delle persone, per poi estendersi alla viabilità ed alla distribuzione dei servizi collettivi essenziali (acqua, energia, ecc). Quindi le tasse sono, in linea di principio, soldi che il cittadino consegna allo Stato perché gli vengano restituiti sotto forma di servizi. Il capitale non richiede servizi: è materia morta, non vivente; si tratta di attrezzi, di impianti, o del valore equivalente espresso in soldi. Che senso ha chiedergli di contribuire alle entrate fiscali?
Prima di proseguire, c’è un altro punto che è importante mettere in evidenza: il principio di uguaglianza e la diversità. “libertà, uguaglianza, fratellanza” : sono i tre principi della rivoluzione francese, fondativi del mondo in cui viviamo, bene o male, espressione del superamento del mondo monocratico fondato su imperatori e sudditi. Ma questi principi sono stati male interpretati e stravolti ad uso e consumo di ogni distorsione ideologica; libertà individuale, si, ma con tutti i limiti necessariamente imposti dalla convivenza. La libertà individuale assoluta presuppone una vita condotta nel totale isolamento. Fratellanza: si, ma dove inizia e dove finisce? Chi ti infligge danni non può essere tuo fratello!!! Uguaglianza: in che cosa? Se c’è una ricchezza sul pianeta è la “diversità”, biologica, prima di tutto, sia nel mondo vegetale che animale che umano. Per fortuna non ci sono due esseri umani che siano uguali tra loro: il DNA fa il suo lavoro con la riproduzione eterologa.
La diversità non è soltanto biologica: è anche sociale. Nel mondo animale le differenze si traducono in un conflitto perenne tra predatori e predati, con una infinità di predatori (anche gli uccelli insettivori lo sono) ed un numero limitato di soli erbivori. E nella predazione non esiste “giustizia” ma solo equilibrio naturale, quando c’è. Nel mondo umano non è molto diverso: siamo predatori, ci nutriamo delle carni di animali che alleviamo per cibarcene, e solo in parte ci nutriamo di vegetali. La predazione umana si manifesta sotto infinite forme, da quella propriamente detta (furti, rapine, truffe, ecc) a forme più sfumate e “legali” in cui chi può riesce a produrre per se, rispetto ad altri, un reddito superiore, sfruttando le opportunità offerte dal mondo in cui vive, tra le quali “anche” il lavoro a basso costo di alcuni, che non dispongono di meglio per produrre il proprio reddito. Da qui le grandi e piccole disparità di ricchezza individuale che producono invidia sociale e conflitti sociali di ogni genere, oltre ad essere il germe di tutte le ideologie a sfondo sociale.
Questo è il quadro di riferimento all’interno del quale sviluppare qualsiasi altra analisi.
A questo punto si può ragionare su pensiero liberale e pensiero socialista, per vedere se, alla luce di una fredda analisi, sia possibile trovare convergenze oppure si tratti di due visioni del mondo antitetiche e perennemente conflittuali. Il pensiero liberale, in estrema sintesi, immagina una libertà d’azione assoluta delle forze produttive, intese come imprenditoriali (ma anche i lavoratori delle aziende, con i loro specifici interessi, sono parte di queste forze produttive). Immagina un mercato, anche su scala planetaria libero da vincoli ed ostacoli agli scambi commerciali, ed uno Stato che non gravi sulle imprese con tasse e regole imposte che possano condizionare il funzionamento delle imprese. Un pensiero liberale così espresso si definisce, in genere, liberismo, un “ismo” che esprime come si tatti di una concezione portata alle sue estreme conseguenze. Nel mondo “liberista” non c’è limite allo sviluppo della ricchezza e del capitale, e non c’è attenzione alle condizioni di lavoro ed al reddito dei lavoratori, pur indispensabili all’esistenza stessa delle imprese. Il pensiero socialista, all’opposto, si concentra sul reddito della forza lavoro, quella che non capitalizza reddito nell’impresa, ma solo, quando ci riesce, come risparmio individuale, fieno in cascina per eventuali carestie. E considera tutto l’utile d’impresa come una sottrazione di reddito ai lavoratori, volta ad accrescere la ricchezza dell’imprenditore. La capitalizzazione, in quest’ottica, viene considerata un “furto”: la celebre frase “la proprietà è un furto”, confondendo capitale e proprietà, è rimasta scolpita nella Storia.
Queste sintesi estreme aiutano a capire dove stiano i “bachi”, tanto nel pensiero liberale che in quello socialista.
Il liberismo si allontana dagli obiettivi “umanisti” della produzione economica per spersonalizzarsi in un’astrazione in cui l’impresa diventa fine a se stessa, dimenticando ipocritamente che è invece una macchina di produzione di ricchezza, se funziona, per una sola o per poche persone, anche a scapito di altri interessi collettivi. Il socialismo, invece, sorvola allegramente sul fatto che senza produzione di capitale d’impresa questa cessa di esistere, e con essa il lavoro umano che produce. E la “proprietà collettiva dei mezzi di produzione”, cioè del capitale, è una affermazione predatoria nella quale un gruppo di persone si appropria, per principio, di qualcosa che altri hanno costruito, anche a proprio rischio e pericolo, perché se fare impresa non fosse un rischio e non comportasse sacrifici, oltre che specifiche capacità e quantità di lavoro, non si vede perché il 100% delle persone non possa fare impresa per conto suo, invece di lamentarsi di quanto l’impresa offre loro e, in ipotesi, sottrae loro.
Già queste poche righe ci dicono che il giusto cammino sta da qualche parte in mezzo a queste due visioni estreme. Ma dove, esattamente? Serve ragionare su alcuni altri elementi. Il capitale, quello che il nostro amico ignorante vorrebbe tassare in esclusiva, è una forza produttiva capace di riprodursi, come i batteri, avvalendosi del tessuto, non strettamente umano ma sociale, in cui si trova. I soldi fanno soldi. Col tempo può crescere a dismisura, sino a raggiungere dimensioni di ricchezza da capogiro. Questo accade oggi più di quanto accadesse in passato, con capitali da capogiro concentrati nelle mani di pochissimi personaggi, o aziende multinazionali, aziende e persone che, grazie al potere di questi capitali, possono condizionare il mondo, la politica, l’economia. Questi enormi accumuli di ricchezze sono una distorsione del modello di sviluppo capitalista, distorsione rispetto alle finalità “umanistiche” dello sviluppo economico umano, ma conseguenza matematica della natura stessa dei fenomeni in gioco. E non è il solo fenomeno da osservare: il pensiero liberale promuove la concorrenza tra le imprese, tra i produttori, intesa come stimolo al miglioramento continuo finalizzato al successo dell’impresa. Una “sana” concorrenza è la base del pensiero liberale. La concorrenza, però, è una lotta sul mercato, una lotta che presuppone, come in tutti i conflitti, vincitori e vinti, aziende che crescono ed altre che scompaiono. Vinca il migliore, nell’interesse di tutti. Si, ma spesso questo “migliore” diventa un mostro vorace che inghiotte ogni altra cosa. Il principio stesso di concorrenza induce ad eliminare gli avversari, in ogni modo concesso, e questo conduce al monopolio, ovvero all’esatto opposto della concorrenza. E monopolio va a braccetto con ricchezza smisurata.
La nostra epoca è ricchissima di esempi di aziende che hanno fatto saltare il banco nel loro settore, come Microsoft, Google, Amazon, per fare solo qualche esempio tra i più noti, ma ci sono innumerevoli colossi che condizionano pesantemente il mercato, ad esempio nel campo dell’energia; stiamo facendo le spese del condizionamento dalle fonti energetiche russe a cui avevamo ingenuamente concesso una condizione di quasi monopolio nei nostri confronti. La risposta del pensiero socialista a queste distorsioni in pratica non esiste: la sola risposta storica è quella della nazionalizzazione di queste imprese, una risposta priva di applicabilità nel mondo globalizzato delle multinazionali. Oppure la risposta fiscale: non posso impedirti di raccogliere tante risorse ma, per quanto attiene alla tua operatività nel mio paese, paghi delle tasse (caso Amazon in Europa). Si tratta di risposte risibili in rapporto alla dimensione dei fenomeni, risposte che non combattono le posizioni monopolistiche e quindi lo strangolamento di migliaia di altre imprese, e sale sul terreno di quelle che avrebbero potuto nascere. Il problema, poi, non sta nel fatto che queste imprese non producano opportunità di lavoro, anzi, oppure non offrano servizi efficienti (Amazon è una macchina quasi perfetta). Il problema eccede i limiti del pensiero economico, liberale o socialista, per trasferirsi nel dominio del pensiero filosofico e sociale. Blateriamo di democrazia, attuata sempre male, e condanniamo i regimi totalitari, ma nel campo della produzione economica assistiamo impotenti allo sviluppo di un sistema, su scala mondiale, che è sempre meno “democratico” e sempre di più concentrato nelle mani di pochi. E questa concentrazione tocca anche la capacità di informazione, cioè la quintessenza della democrazia, per quanto imperfetta sia.
La globalizzazione dei mercati, inoltre, ha mostrato proprio adesso, con la guerra in Ucraina, quanto distorsiva possa essere nei confronti degli obiettivi umanistici primari dei popoli, compromettendo proprio quella “libertà” che è il primo, ed il più importante, dei tre pilastri della Rivoluzione Francese. Abbiamo scoperto che la dipendenza dai mercati esteri ci rende schiavi, ci toglie le nostre libertà, ci rende fragili e potenzialmente privi degli stessi beni di prima necessità da cui dipende la nostra vita, come l’energia e persino il pane. Credo che, a questo punto, soltanto un cieco possa non vedere dove ci portano queste analisi.
Tutto quello su cui abbiamo sin qui fondato la nostra esistenza, come bagaglio ideologico e modello di sviluppo, va considerato come un’importante esperienza umana, ma va anche ridimensionato drasticamente, subito, mettendo nel cassetto le ideologie monocromatiche e l’internazionalismo, proletario o finanziario che sia, perseguendo un modello fondato sulla massima autonomia locale nella produzione dei beni e servizi essenziali e strategici, senza rinunciare al commercio internazionale ma riportandolo alla sua funzione primaria, quella di fornirci una quota limitata e non strategica dei beni e servizi a noi necessari o comunque appetibili.
Dobbiamo abbandonare l’egualitarismo di maniera per tornare alla società dei migliori, in cui ci sia spazio per tutti, ma ciascuno secondo i suoi meriti, siano essi acquisiti o naturali. E dobbiamo, TUTTI noi, portare il dovuto rispetto al capitale come al lavoro, premiando entrambi, con un percorso di politica economica e sociale che non combatta la produzione di ricchezza ma, anzi, la favorisca, purché non a scapito delle forze economiche più deboli, ostacolando in ogni forma possibile la formazione di posizioni monopolistiche.
Questo percorso non è liberista e non è socialista, ma è un percorso orientato a ricercare l’equilibrio nella diversità, riconoscendola, non negandola, e rispettandola ovunque si manifesti, senza travestirla. Il crollo politico nazionale imminente e la crisi economica severa che incombe sopra di noi debbono diventare l’occasione per una riscossa nazionale, con una SVOLTA decisa, che ci allontani dai facili inganni offerti dall’una o dall’altro versante del percorso sin qui seguito, prima a livello nazionale ma poi anche europeo.